sabato 27 dicembre 2008

Il sesto giorno dopo il solstizio d'inverno.

A prima vista mi erano sembrati dei nidi d’uccello ma continuava a sorprendermi il loro colore verde brillante. Così, avvicinandomi meglio all’albero, scoprivo che quelle palle tonde altro non erano che… Vischio. Io in genere l’avevo sempre visto oltraggiato da improponibili vernicette color oro e argento tra le bancarelle dei fioristi durante le feste di Natale, mai appeso festoso e vivo tra gli alberi. Invece ora la sacra pianta dei Druidi dimorava a perdita d’occhio su di un’infinità di alberi tutt’intorno.Che dire? Una piccola miracolosa coincidenza: era la prima volta che lo vedevo in natura e lo scoprivo proprio lì tra i Cromlek, le fonti e le radure sacre dei Celti, evocati dalle parole di Boudet tenute per caso quel giorno tra le mani sul Pla de la Coste sopra Rennes les Bains. Pianta magica e curativa che cresce senza mai toccare terra (essendo in realtà un parassita), veniva tagliata nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno con un falcetto d’oro dai Druidi. Secondo questi sacerdoti se due nemici s’incontravano sotto una pianta di Vischio dovevano deporre le armi e concedersi una tregua, per questo viene regalato e appeso sulle porte di casa come simbolo beneaugurate di pace. Sempre-verde caro anche alla dea nordica dell’amore e della fertilità Freya, viene usato dagli innamorati per scambiarsi il classico bacio di Capodanno sotto i suoi rami. L’importante, mi raccomando, è che non tocchi mai terra perché, come spiegava Plinio il vecchio, è una pianta posta ‘Tra cielo e terra’ e non appartiene a nessuno dei due regni. Troppo sacro dunque per essere staccato dalle mie mani, non possedendo purtroppo nemmeno un falcetto d’oro, e con la paura che per disattenzione mi cadesse al suolo, l’ho immortalato in una foto. Sono sicura che porterà pace e amore a tutti quelli che passeranno per questa soglia.

martedì 23 dicembre 2008

Forse era domani...



... o forse ieri.
Fatto sta che un giorno di dicembre di ventitrè anni fa sei arrivata a farci compagnia: paziente, tollerante, grata.
Auguri.
( E con le mani amore per le mani ti prenderò
e senza dire parole nel mio cuore ti porterò. )


giovedì 18 dicembre 2008

Il cassetto dei Contes. (You Got It)

Natale era l’unica occasione per avere dei giocattoli nuovi.
Pochi.
Eri costretto quindi a scegliere qualcosa e rinunciare, ovviamente, a qualcos’altro; dovevi perciò giocare molto bene le tue carte se non volevi rischiare di trovarti tra le mani per tutto l’anno seguente, qualcosa su cui ti accorgevi con sgomento di aver irrimediabilmente perso l’interesse dopo pochi giorni. La letterina ‘a chi di dovere’ andava dunque meditata con mesi d’anticipo; sarà forse per questo motivo, penso, che Natale mi viene in mente subito dopo il Ferragosto.
Tra i doni più ambiti, comunque, quelli che non rischiavano di deludere e che avevano al massimo bisogno di un ricambio per l’eccessivo uso, ricordo che non poteva mancare Il Gran Teatro dei Burattini.

Si presentava come un largo cassetto decoratissimo e chiuso su tutti i lati, con una dozzina di fori sul coperchio. Tirando il cassetto apparivano le quinte da incastrare nei suddetti buchi, su di un lato c’era raffigurata la sala del trono e sull’altro un bosco da cui si intravedeva il castello in cui presumibilmente si svolgevano le vicende. Coricati diligentemente uno accanto all’altro poi, i personaggi della Corte - peraltro nemmeno tanto numerosi - attendevano pazientemente il loro turno per entrare in scena. Immancabili Re e Regina, poi la principessa, il bel Guardiacaccia che aspirava alla di lei mano (o era un giovane principe?), un prete oppure un giullare, o ancora la strega o il diavolo secondo quello che ti capitava nella confezione, come i cioccolatini di Forrest Gump. Così, con un po’ di fantasia, aprendo quel cassetto sempre uguale prendevano corpo, come un’infinita variante matematica, storie sempre diverse spesso rappresentate davanti ad un pubblico numeroso ed entusiasta che nemmeno esisteva. Ma il piacere di raccontare quelle storie era sufficiente a passare bene gran parte della giornata.


domenica 14 dicembre 2008

You are so beautiful


Diciamo che non è per niente facile stare qui, a chilometri di distanza, a pensare a lei...

lunedì 8 dicembre 2008

Rennes le Chateâu 2008 - (Blue moon)

Rennes riservava molte sorprese quest'anno, poche piacevoli.
Quella peggiore è stata trovare praticamente sigillate le porte per visitare Villa Bethania. Ora si accede solo alle stanze del pianterreno e la seconda è a sua volta chiusa da una porta a vetri che mostra gli arredi migliori: il Mucha, il Piano, Pissidi, Calici, abiti ecc.; credo che per questo si debba ringraziare vivamente gli imbecilli che tentano sempre (a volte purtroppo riuscendoci) di portarsi a casa qualche souvenir.

Il giardino era, al solito, in pessime condizioni, ma si sono premurati di nascondere la peraltro bruttissima nuova tomba di Saunière dietro alcuni cespugli, togliendo quelle orribili cannette di bambù dal cancello che servivano a non far vedere, senza aver pagato, il mausoleo del… Prete miliardario. Triste prima, tristissimo ora.
La galleria sotto le due torri si presentava fatiscente e le ragnatele imperversavano dappertutto. Perfetta per Halloween. Meno per la visita estiva dei turisti che, sul libro degli ospiti all’ingresso del Presbiterio - sotto un entusiastico e davvero confortante “Che postone!!!!!!!!!”- sottoscrivevano un laconico: “4,50 euro buttati via”… impensabile, eppure vero!
La Tavola dell'Abbé dell’indimenticabile Robin ora è diventato: “Le jardin de Marie” dove sembra che a tenere alto l'orgoglio della nazione sia solo la Pelforth. Il piatto forte, infatti, è l'insalata greca, i proprietari sono teutonici, la bandiera è quella occitana, il thè inglese, le candele tibetane, il cameriere con giacca orientale sembra buddista. Perlomeno nell’imperturbabilità.
Sparita la carta con il pentacolo di Lincoln sostituito da uno stemma gigliato.
Anche il padrone spirituale sembra cambiato, al centro del giardino, infatti, un bronzetto di Budda ospita tra le mani il dono di un fiore...
Le sosprese piacevoli sono state altre: la nostra bella rivista “Indagini su Rennes le Château” in tutte le librerie e sotto braccio a qualche turista, l'edizione della LVLC curata da Migdom in vetrina all'Empreinte, la guida di Mammaoca scaricata da Internet e in bella mostra sul cruscotto all’interno di qualche vettura… (eh, son soddisfazioni!) e cose che nessun nuovo gestore ci può togliere, come questa spettacolare luna piena sul Bugarach.


venerdì 5 dicembre 2008

Il Graal a Ravenna. (Il sacrificio. Nyman)

Roma, agosto 258.

Lorenzo si era per puro caso appena allontanato dal gruppo riunito nel cimitero di Prætextatus quando, richiamato dal trambusto, aveva assistito impotente dalla strada alla brutale cattura degli altri diaconi. Con sé aveva l’oggetto che Sisto II gli aveva affidato poco prima con l’incarico di portarlo lontano da Roma. La coppa del sacrificio, povera e semplice com’era, avrebbe solo rischiato di essere distrutta dall’ignoranza di quegli avidi pagani mentre Valeriano, conoscendone il potere, non avrebbe esitato a servirsene contro di loro. Non c’era tempo da perdere. Si avviò furtivo verso le vicine scuderie dove Diego, fidato amico d’infanzia, l’avrebbe portata oltre i Pirenei verso la loro città natale; al suo ritorno gli avrebbe rivelato i dettagli del nascondiglio. Ma il destino è un solitario di Dio, non una partita tra uomini: la coppa non arrivò mai a Osca e loro non si sarebbero più rivisti.


Aquae Calidae Agosto 415 d.C.

La gravidanza era oramai al termine. Ataulfo l’aveva condotta presso le terme poco tempo prima di partire per Barcino per concederle un po’ di ristoro e per tentare di alleviarle le fastidiose contrazioni che avvertiva ormai da qualche giorno. Nel tardo pomeriggio con il carro l’aveva ricondotta lentamente e pieno di attenzioni verso la cittadella che dominava come un nido d’aquila la valle sottostante. Lungo il tragitto si erano fermati per l’ultima volta al tempio che sorgeva nella grande spianata, circondato da cespugli di erbe aromatiche e da un nastro di ciottoli asciutti che indicava la presenza di un torrente. Nella casa del loro Dio comune, questa volta le aveva mostrato qualcosa di speciale.
Un arco a ferro di cavallo al di sopra del quale erano incisi innumerevoli fiori a sei petali simbolo della vita, si apriva nella facciata del sacro edificio in pietra e sormontava due monolitiche colonne in granito. Sopra di esso il muro si prolungava verso il cielo in un sinuoso muretto che accoglieva una feritoia in cui era posta una campana di bronzo. Il piccolo ingresso quadrato e spoglio, dava accesso ad un più ampio locale rotondo le cui pareti erano fino a metà altezza in pietra grigia e il restante spazio in arenaria rossa; le due tonalità di pietre erano separate da un motivo geometrico di stelle a quattro punte con un bottone centrale a loro volta inscritte in un cerchio e lo strano decoro si rincorreva lungo tutta la circonferenza. Da qui si entrava in un secondo spazio sempre circolare molto più grande, circondato da colonne con capitelli scolpiti con foglie sormontati da archi in pietra rossa sempre a forma di ferro di cavallo che davano all’insieme un aspetto vagamente moresco ma estremamente sobrio. Al di sopra di ogni arco le monofore lungo tutta la circonferenza assicuravano a questa sala la luce necessaria in ogni ora del giorno. Nel corridoio tra le colonne Ataulfo le rivelò l’accesso ad una cripta sotterranea da cui partiva un lungo cunicolo in cui, dopo aver acceso una torcia, s’incamminarono per un tempo che a Galla Placidia parve infinito. Giunsero in un enorme anfratto su cui si affacciavano alcune gallerie. Ciascun ingresso era preceduto da una pietra rettangolare riccamente scolpita sui quattro lati con motivi differente: croci dalle estremità ricciolute come se ne vedevano sulle loro monete, pavoni intenti ad abbeverarsi a una coppa, motivi geometrici, piante e fiori mirabilmente raffigurati. Ataulfo entrò sicuro in quella preceduta dal basso pilastro recante l’Alfa e l’Omega ai fianchi di una croce e tenendola per mano la condusse lungo la galleria. Durante il tragitto lo sposo le rivelò che le altre gallerie celavano impervi labirinti mortali o conducevano sul ciglio di profondi baratri oppure venivano sommersi a sorpresa dalla piena improvvisa di tumultuosi corsi d’acqua sotterranei.
Prima che l’ansia per il buio e il forte odore della terra umida cominciassero a diventare un problema per Galla Placidia, sbucarono in una grotta e alzando la debole fonte di luce sopra le loro teste Ataulfo le mostrò un enorme tesoro. Quello ricchissimo che le aveva donato il giorno delle nozze portato su due enormi vassoi da valletti vestiti di seta nella loro stanza nuziale, a casa di Ingenius a Martius Narbo, appariva come un modestissimo obolo.
Appena riuscì ad abituare gli occhi alla debole luce della torcia riconobbe anche l’enorme candelabro giudeo sottratto a Roma da Alarico. La sua sagoma inconfondibile si ergeva come una scheletrica sentinella sopra quelle innumerevoli casse piene di perle, coralli, pietre preziose e oggetti in oro e argento.
I riflessi scintillanti di enormi piatti, brocche, diademi, bracciali e collane si mescolavano ai bagliori delle gemme provenienti dai paesi più lontani. Sottili filigrane o ardite incisioni, millimetriche granulazioni, sbalzi o delicate bulinature svelavano la provenienza dei vari bottini: gli oggetti più finemente cesellati provenivano dalla Colchide. In questa terra, le raccontò Ataulfo, i fiumi erano così pieni d’oro che bastava tendere controcorrente una pelle di ariete per trovarla alla fine della giornata ricoperta di innumerevoli piccole pepite e pagliuzze.
Dunque la leggenda del vello d’oro che tanto l’aveva affascinata da bambina, pensò un po’ triste, non era altro che questo semplice sistema di estrazione dell’oro…
Quello era il tesoro della sua gente, spiegò Ataulfo, non aveva nulla a che fare con quello personale che seguiva i capi nelle loro tombe: era il futuro del suo popolo.
Egli, mostrandoglielo, compiva un atto di totale fiducia e amore.
Sopra le loro teste sferzata da un caldo vento profumato, la cittadella di Rhedae guardava verso i Pirenei sopra le cui cime erano sospese come un minaccioso presagio enormi, cupe e pesanti nubi nere.


Barcino, ottobre 415 d.C.

Ataulfo e Valia, il fido fratello minore, avevano lasciato la città senza scorta quando ancora la luce del sole non aveva cominciato a diluire il buio della notte e non vi avevano fatto ritorno che qualche giorno dopo, ricoperti di povere e sudore come i loro cavalli. Nessuno seppe mai la mèta e lo scopo di quella missione.
Quel fagotto nascosto sotto il mantello era per suo figlio Teodosio nato da pochi giorni, colui che avrebbe dominato il grande regno unificato dei popoli dei genitori. Ignorava che la vendicativa lama del potere e l’infausto destino del piccolo gli avrebbero impedito entro breve di veder realizzato il suo desiderio.

Ruscino, marzo 416 d.C.

Valia aveva stretto a lungo Galla Placidia tra le sue braccia prima di dare inizio al viaggio che l’avrebbe riconsegnata al fratello imperatore, era stata la sua regina ma soprattutto una cara sorella. Non aveva sopportato le angherie cui l’aveva sottoposta Sigerico dopo l’assassinio di Ataulfo e aveva provveduto a porvi sommariamente termine in pochi giorni. A guidare i Visigoti ora era di nuovo un fiero discendente dei Balti.
Dopo l’abbraccio le aveva consegnato quel fardello di candida pelle d’agnello chiuso con lacci di cuoio che racchiudevano l’oggetto sottratto chissà dove con il fratello nei primi giorni del loro arrivo a Barcino.
Per Valia e il suo popolo ariano, quella vecchia coppa di stagno non aveva nessun valore né materiale né religioso, per Galla Placidia invece il valore era inestimabile, incapace anche solo di toccarla con le mani tremanti.
Valia aveva dovuto nascondergliela personalmente tra le grandi casse al suo seguito, casse dove già era stato riposto con cura il tesoro avuto in dono da Ataulfo nel giorno delle nozze.

Nemausus, aprile 416 d.C.

Nel carro, tra le calde pellicce del tutto insufficienti però a scioglierle il gelo delle mani, Galla Placidia riviveva le tappe di quel viaggio a ritroso con infinita tristezza. Cupo, ora, l’azzurro del cielo che tanto somigliava agli occhi di Ataulfo, astioso il maestrale che un tempo aveva portato lontano lo scampanio del suo primo giorno di sposa e regina, crudele quel profumo di pini e di mare di cui il piccolo Teodosio sembrava sempre profumare tra i sottili capelli…
Costanzo guidava la lunga colonna di soldati che scortava la sua promessa sposa verso la città di Ravenna. Più volte i loro sguardi si erano incrociati durante il tragitto, ma in quei grandi occhi scuri Costanzo non vedeva che un buio, profondo pozzo insondabile.
L’inconfondibile profilo della Torre Magna, la più alta tra quelle del muro di cinta, avvertiva che presto avrebbero raggiunto la méta e Galla Placidia avrebbe ricevuto gli onori a lei dovuti nel tempio del Foro dedicato a Caio e Lucio Cesare nel centro della bella città. Da qui, l’indomani avrebbero abbandonato la Via Domitia per riprendere verso sud la Iulia Augusta che li avrebbe condotti senza ostacoli verso la méta.

Ravenna, 445 d.C.

Galla Placidia rimase ancora un poco a fissare negli occhi la figura di san Lorenzo nella lunetta della navata, poi uscì di nuovo alla luce del pallido sole di novembre richiudendo alle spalle il pesante battente dell’edificio. Nelle oscure profondità dell’edificio a forma di croce giaceva accuratamente nascosto la causa di quel martirio. L’ultimo preziosissimo dono del suo sposo.


Le fate di Rennes-le Château (The best things in life are free)

Per me, che nell’inquinata provincia Padana vedo al massimo delle bianche e semplicissime Cavolaie, lo spettacolo delle farfalle di Rennes le Château non smette mai di stupire.

Eppure, se tenete ben presente che non lontano da qui, sui colli a metà strada con Rennes les Bains, esiste il Pla de las Brugos ovvero il pianoro delle fate (dove, per i Celti, nella notte di Shamhain esse portavano gli uomini ammaliati intrappolandoli per sempre), la cosa non dovrebbe meravigliare più di tanto. Terra di sogni e di leggende, in quale altro luogo potreste immaginare che le fate dei boschi si servano di questi insetti per volare veloci di fonte in fonte, o che siano proprio loro con scintillanti ali vittoriane a posarsi continuamente vicino a voi? La leggenda delle Fate-farfalle racconta che queste si possano vedere solo per un attimo abbagliandovi quasi subito con i riflessi delle loro ali; che adorino piante e fiori da cui traggono energia vitale e che avvicinandosi alle persone creino intorno a loro uno stato di pura armonia. Forse queste non erano Fate-farfalle perché rimanevano a lungo sotto il mio sguardo, ma ho un grosso dubbio perchè, per quanto riguarda l’armonia, la leggenda ha proprio ragione.