sabato 30 ottobre 2010

JEU DE L'OIE JEU DE LOI (M.Ravel Ravel - Ma mère l'oye)

Si stenta a credere che un gioco dalle regole così semplici, oseremmo dire banali, privo di ogni qualsivoglia strategia di gioco e basato essenzialmente sulla casualità e la fortuna, possa aver attraversato trionfalmente secoli di storia. Ma forse la grande qualità del Gioco dell’Oca è proprio questa: non richiedere alcuna riflessione, né calcolo, né arguzia, permettendo a chiunque si sfidi un duello ad armi pari.
Una tradizione vuole che il gioco sia stato concepito, insieme ad altri passatempi divenuti famosi, dall’eclettico condottiero Palamede durante il lungo e a volte tedioso assedio sotto le mura di Troia; altri vogliono collocare la sua invenzione verso la metà del ‘500 alla corte di Francesco I De Medici. Lo sfortunato granduca di Toscana importante mecenate e appassionato di alchimia (che forse ai più è noto principalmente per la misteriosa morte dettata dagli intrighi di palazzo, oggetto di studi recentissimi), lo avrebbe poi inviato in dono alla reggia spagnola di Filippo II dove, con il nome “ Nobile gioco rinnovato dei Greci”, dilagò velocemente in tutta Europa, rispecchiando il ritrovato gusto di quest’epoca per l’ellenismo. E’ ufficialmente menzionato per la prima volta a Londra nel 1527 ma è di nuovo in Italia, giusto nella metà del 1600, che ritrova grande accoglienza e fama e dove a Venezia, per opera di Carlo Coriolani, viene pubblicato il primo tabellone di gioco a noi pervenuto con il titolo di “Il dilettevole gioco di Loca”.
Le innumerevoli varianti cui saranno sottoposte in seguito le figure delle caselle che andranno dalla politica alla pubblicità, dalla gastronomia alla storia, in un vortice di popolarità che non accenna a diminuire neppure ai nostri giorni, non riusciranno però a stingere il fascino misterioso che trasmette l’originale spirale di 63 caselle, le familiari figure delle oche e i suoi antichi simboli nonché, ad un’attenta lettura, la mistica numerologia che la pervade.

Il gioco, costituito da un tabellone formato da una spirale sinistrorsa che prevede appunto 63 caselle, consiste nel varcare per primi la soglia del Giardino dell’oca, giardino che costituirebbe la sessantaquattresima casella. Esattamente quante ne possiede una comune scacchiera. Muniti di un segnalino, si avanza sul percorso di tante caselle quanti sono i punti corrispondenti alla somma dei due dadi lanciati, ma attenzione, un elementare calembour francese ci suggerisce la vera essenza del gioco: “Jeu de l’oie, Jeu de Loi”: Gioco dell’oca, Gioco della Legge.
Nell’incertezza del nostro futuro destino, impersonato dalla totale casualità del responso numerico ottenuto dal lancio dei due dadi che dettano le nostre mosse e guidano implacabili il nostro cammino, ci dobbiamo infatti attenere a un itinerario dallo schema definito e a precise e ferree regole. Un disegno matematico rigoroso, prestabilito ed ordinato, che noi potremo solo assecondare, guidati dalla buona o cattiva sorte che in quel momento ci spetta sul percorso ricco di insidie ma anche di premi.
I bonus sono donati dalle tredici dinamiche figure dell’oca disseminate sul tabellone che consentono di replicare in volo, sulle loro sacre ali, il punteggio ottenuto con il lancio dei dadi anche se, naturalmente, questa opportunità potrebbe rivelarsi in realtà un handicap, facendoci finire in una delle otto caselle sfavorevoli che prevedono il pagamento di una posta o soste forzate e che sono: il ponte al numero 6, l'osteria al 19, i dadi al 26, il pozzo al 31, il labirinto al 42, la prigione al 52, i dadi al 53, la morte al 58.
Le oche sono disposte secondo lo schema matematico del 5 + 4 ripetuto ossessivamente. Le troviamo infatti presenti nella casella n. 5 la prima; nella 9 (5+4) la seconda; nella 14 (9+5) la terza; nella 18 (14 + 4) la quarta e così via fino alla fine.
Salta subito all’occhio che con un fortunato lancio dei dadi all’inizio con risultato 9, porterebbe il privilegiato giocatore immediatamente alla fine del gioco con la conseguente vincita dei pegni messi in palio senza nessuna competizione. Una regola stabilisce, quindi, che con il nove ottenuto dal lancio dei dadi che formano le cifre 3 e 6, si vada direttamente al 26, mentre se lo si ottiene con 5 e 4 si raggiunga il 53. Nella semplicità delle regole dunque, nulla è lasciato al caso: Jeu de l’oie, Jeu de Loi.
Alla fine del gioco bisognerà ottenere con i dadi un numero tale che consenta di fermarsi esattamente nel giardino dell’Oca, costringendoci, in caso contrario, ad essere condannati a vagare avanti e indietro sulle caselle vicine, rischiando di essere raggiunti e superati dagli altri concorrenti. I frequenti arresti sulle caselle infauste o gli improvvisi slanci dei bonus, frenano le smanie dei giocatori impazienti e spronano i flemmatici, mentre si ha l’impressione di camminare costantemente su immagini altamente simboliche: un lungo elenco di riferimenti astrologici, alchemici, sapienziali, che tanto lo fanno somigliare ad un vero percorso iniziatico e che, attraverso gli ostacoli, ci tempra e ci perfeziona. La possibile prematura fine del gioco alla casella 58, che ospita la morte ed è a pochi passi dalla fine del percorso, è un ulteriore monito alla prudenza proprio in prossimità della nuova vita che ci aspetta piena di delizie nel Giardino dell’oca.

Le origini.
Molto simile, per la tipica struttura a spirale, all’antichissimo gioco rituale del Mehen ovvero il ‘Serpente arrotolato’, comune nell’Egitto delle prime dinastie, potrebbe essere originario di questa terra se consideriamo la specifica devozione degli egizi per l’Oca, animale sacro presente nei loro antichi miti della creazione. Il dio della terra Geb, infatti, marito di Nut dea del cielo e padre di Osiride, Iside, Seth e Nefti, secondo la tradizione fu trasformato in oca e covò un uovo da cui nacque il sole; lo starnazzare dell’oca fu il primo suono cosmico, ancestrale Rhua, verbo creatore.
Ma occorre precisare che l’oca, animale coraggioso e dal sonno leggerissimo, simbolo di vigilanza e di custodia (come racconta l’episodio delle oche del Campidoglio) spesso confusa etimologicamente, graficamente e simbolicamente con il cigno, perfettamente a suo agio nell’acqua, sulla terra e in cielo, messaggero tra i tre regni, era sacro perché ritenuto animale profetico e psicopompo ed è sempre stato un animale tenuto in grande considerazione presso molti popoli in ogni angolo della terra. Onorato in Cina, Giappone e India, dove diventa la cavalcatura di Brahma, era sacro oltre che ai già citati egizi, anche a sumeri, etruschi, finni, germani e romani e perfino ai maya all’alto capo di un oceano ancora tutto da scoprire. I Celti la consideravano messaggera dell’altro mondo e alcune di loro, intoccabili, erano presso i loro santuari, mentre nell’antica Grecia, attraverso la figura di Afrodite Urania trasportata in volo da una grande oca, diventa simbolo dell’amore ideale. Immagine da cui hanno sicuramente attinto i moderni illustratori dei Racconti di Mamma Oca.






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Secondo Eliphas Lévy (La clef de grand Mistères) nel gioco dell’Oca si può leggere una trasposizione dei Tarocchi: in entrambi, infatti, i simboli sono intrinsecamente legati ai numeri. Robert-Jacques Thibaud (Jeu de l’oie) ipotizza un labirinto iniziatico e divinatorio; per Fulcanelli (Demeures Philosophales) infine, è un percorso sapienzale che cela la Grande Opera. Le ipotesi sulla numerologia del gioco, poi, sono innumerevoli. Al 4 e al 5, per esempio, che scandiscono le dimore delle oche, sono associati rispettivamente i simboli della terra e del cielo; all’otto (8 x 8= 64 ovvero le sessantatré caselle più il giardino dell’oca dell’arrivo), si affianca il simbolo dell’infinito e dell’equilibrio cosmico; il perfettissimo 9 caratterizza la forma del gioco e l’intervallo tra le caselle delle Oche; Il tredici, che è il numero totale delle oche presenti sul tabellone, è numero lunare per eccellenza, in quanto sono 13 le lunazioni annuali e così via, in un mulinello di interpretazioni per ogni casella e ogni azione che cela però ben stretto ancora oggi tra le sue volute ipnotiche il vero segreto della sacra spirale.
Dobbiamo ricordare inoltre che il nostro caro pennuto, instancabile camminatore, era simbolo dei viandanti e dei pellegrini esattamente come san Giacomo, forse perché le cronache ci raccontano la loro marcia al fianco dei fedeli verso Gerusalemme durante la prima crociata. Non è forse un caso, dunque, che la zampa d’oca accompagni tutt’ora, discretamente, il viaggio dei pellegrini a Compostela .


Il sentiero Atlantideo.
Molte delle costruzioni lungo il cammino del pellegrinaggio di Santiago di Compostela portano una firma impressa sulle pietre, un marchio di riconoscimento molto particolare, il Pédaque, ovvero: una zampa d’oca. Era la firma degli Enfants de maître Jacques, meglio conosciuti come Jars, il maschio dell’oca e facevano parte di una confraternita, quella dei Compagnos du Devoir, costruttori medievali nati all’epoca dell’edificazione delle grandi cattedrali gotiche.
Oggi la famosa conchiglia di San Giacomo, la Merelle, che si trova stilizzata sui pannelli che indicano il sentiero del pellegrinaggio, sembra sostituire con una chiara sincretizzazione il simbolo che lasciarono un tempo come firma sulle loro costruzioni i Figli di Mastro Giacomo.


Il loro Giacomo secondo alcuni, però, non era l’apostolo il cui corpo adagiato su una barca guidata solo da un angelo approdò miracolosamente su queste coste dopo il martirio, come vuole la tradizione, ma un leggendario tagliatore di pietre pirenaico, discendente degli antichi innalzatori di Megaliti e Dolmen in Europa e chiamato, per la sua fama, da Hiram di Tyr a Gerusalemme per contribuire all’erezione del Tempio di Salomone e per scolpire una delle sue due mitiche colonne: la Jakin (che ne ricorda il nome) e forse anche quella di Boaz.
Da dove veniva la bravura che diede tanta notorietà a questo mitico Maitre Jaques?

Secondo Louis Charpentier, amatissimo e prolifico scrittore esoterico, sul suolo di Francia si troverebbe un enorme gioco dell’oca naturale le cui caselle sarebbero contrassegnate dalla presenza di monumenti megalitici dedicati al dio celtico Lug, eroe solare, signore della luce (come Lucifero), che legherebbe la nostra preistoria all’antico sapere di Atlantide. Sempre secondo Charpentier la straordinaria conoscenza di questo antico e leggendario popolo si potrebbe ancora trovare studiando con attenzione i templi megalitici, le piramidi, i templi greci e, infine, le cattedrali gotiche. Un sapere penetrato in Europa dopo il cataclisma che distrusse il regno atlantideo attraverso Finisterre e la strada del cammino di Compostela, il cammino dell’illuminazione e della conoscenza. Non per niente Lug era il dio dai multipli talenti: fabbro, falegname, mago, suonatore d'arpa, poeta, guerriero, e anche medico. Maestro, dunque, di tutte le arti e i mestieri.
Furono i discendenti di questo popolo ad aver tramandato le straordinarie conoscenze architettoniche a personaggi come Mastro Giacomo? E tra lui e i Compagnons, chi avrebbe custodito nel tempo tutte queste conoscenze? Forse un popolo misterioso che ancora una volta è legato alla figura dell’oca.
Sul confine pirenaico tra Spagna e Francia, oltre all’enigmatico popolo Basco, viveva un’altra razza misteriosa dalle origini incerte: i Cagots. Chiamati anche Christiens o Christianos, erano un popolo fortemente discriminato per secoli per alcune peculiarità fisiche, in tempi in cui ogni difetto fisico era stigmatizzato come una punizione divina per una colpa commessa, quando non esplicitamente una forma di possessione diabolica. Costretti a vivere ai margini dei villaggi fino alla fine del XVII secolo, erano accusati delle azioni più bieche, di ogni nefandezza, oggetto di pesanti vessazioni ed evitati come la peste, anzi, come la lebbra, malattia di cui erano considerati portatori. Ma la tradizione vuole che fossero abilissimi costruttori e profondi conoscitori della medicina, tanto che tra di loro vi erano valenti chirurghi, levatrici e mastri muratori e poiché, secondo le antiche credenze, la lebbra non si diffondeva attraverso il legno, il mestiere di carpentiere era quello cui erano più spesso dediti, anche in virtù delle loro eccezionali conoscenze costruttive, discendenti, si raccontava, di un’antica razza sconosciuta che a questo punto diventa gioco facile associare alla mitica Atlantide. Ricordate Palamede, l’eroe che secondo la tradizione inventò il gioco dell’oca? Ebbene il suo nome significa: uomo dalla mano palmata e una delle maldicenze rivolte al popolo dei Cagots era proprio quella di avere le mani o i piedi palmati. Ora, senza sconfinare nella fantascienza della famosa serie di telefilm degli anni ‘settanta L’Uomo di Atlantide, dove un giovanissimo Patrick Duffy interpretava la parte di Mark Harris ultimo discendente della razza di Altlantide caratterizzato da inquietanti arti palmati, è ben noto che alcune malformazioni genetiche come la Sindattila causano esattamente l’aspetto di una mano palmata mentre l’isolamento e la consanguineità porterebbero facilmente alcune deformazioni congenite a presentarsi con una frequenza maggiore, fino a farne un marchio distintivo all’interno di una stessa comunità chiusa per secoli. Resta il fatto che i Cagots dovevano cucirsi sulla spalla sinistra, come segno di riconoscimento, un’insolita zampa d’oca rossa.
L’ipotesi, comunque molto affascinante, di un popolo esule sulle sponde iberiche, detentore e divulgatore di un profondo sapere tra gli ominidi del paleolitico in cui stava per nascere l’ Homo sapiens sapiens e che, più efficace di ogni linguaggio, per farlo usarono le immagini, solletica le menti di molti. Immagini che oggi noi non sappiamo più o non vogliamo più comprendere. Eppure, per citare una famosa frase tratta dal Vangelo di Filippo trovata tra i codici di Nag Hammâdi, 'La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si può afferrare in altro modo'. Varrebbe la pena, quindi, di cominciare a guardare l’innocente gioco dell’Oca con altri occhi.

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Il gioco dell’oca si è prestato nel tempo anche alla stesura di alcuni romanzi. Jules Vernes nel suo Le Testament d’un excentrique, lo ambientò sul suolo degli Stati Uniti dove la posta era naturalmente una somma straordinaria, pagine da cui è stato liberamente tratto nel 2001 il film comico Rat Race. Tra i contemporanei troviamo Laurent Kloetzer e il suo: La voie du Cygne, dove l’idea del gioco è resa durante tutto il racconto con frequenti interazioni tra il gioco sul tabellone e la vita reale: un gioco dal quale nessuno potrà recedere fino alla fine della partita. E infine, per tutti gli appassionati, una vera chicca: un intero museo dedicato alla raccolta dei vari tabelloni del gioco dell’Oca nei secoli. Si trova a Rambouillet, una cittadina a pochi chilometri a Sud di Parigi, una ‘casella’ su cui è obbligatorio a questo punto concedersi una sosta.


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giovedì 21 ottobre 2010

I Catari in Italia.

Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi.

Tra l’XI e il XII secolo in particolare, ma in tutto il medioevo in generale, una profonda spiritualità permea l’Europa. Si parte alla conquista di Gerusalemme per conquistare l’oltraggiato simbolo della culla del cristianesimo e si diffondono i racconti sul Santo Graal. E’ l’epoca delle grandi cattedrali e del culto delle reliquie, di miracoli e profezie, dell’amor cortese e dei santi cavalieri. L’ossessione per la salvezza dell’anima e l’orrore dell’inferno sembrano dettare ogni azione dell’uomo medievale: è il tempo delle grandi penitenze e delle mortificazioni e si comincia a guardare con occhio critico l’operato di chi di penitenze e mortificazioni dovrebbe fare vita. Il libro del discusso cistercense Gioacchino da Fiore, citato quale: “Ispiratore di un mondo più giusto” e “Maestro della civiltà contemporanea” ottocento anni dopo la sua morte dal Presidente americano Obama, con la visione dell’avvento di un’era dello Spirito Santo, (un’era di concordia e perfezione spirituale e religiosa), profetizzava il ritorno alla povertà e all’umiltà della chiesa, creando grandi attese spirituali e spargendo i semi dei futuri ordini francescani e domenicani. L’opulenza sfoggiata da alcuni monasteri, tra cui quello sontuoso di Cluny, ispirarono nel frattempo la nascita di ordini modesti quali Cistercensi, Certosini, Vallombrosani, che furono l’espressione più evidente del malessere nato all’interno stesso dei monaci benedettini, oramai votati principalmente alla liturgia, al lusso, ai vizi e alla simonia, sfuggendo ai sacrifici imposti dalla primitiva regola di San Benedetto. Questi nuovi ordini, comunque, racchiuderanno il loro austero modo di vivere tra le mura dei cenobi mentre tra il popolo, stremato da carestie e soprusi, si andavano espandendo nuove eresie attraverso zelanti predicatori. Anticipando in qualche modo le future parole di San Francesco: conversatio inter pauperes, ‘la vita da povero tra i poveri’, favorivano numerose adesioni e la rapida espansione di queste dottrine con la testimonianza evangelica ‘tra’ la gente; il loro punto di forza era la condotta esemplare e il lavoro manuale del proprio clero, inevitabilmente contrapposto all’evidente ozio e lusso della chiesa di Roma.
Condannando principalmente l’avidità e la scandalosa condotta della chiesa di Roma caduta in una profonda fase di decadenza (tanto fonda che ancora nel 1323 Papa Giovanni XXII con la Bolla Cum inter nonnulus dichiarava “Eretiche” le proposizioni francescane sulla povertà di Cristo e degli Apostoli), sbocciarono vari movimenti che ricalcavano l’umile vita degli Apostoli.
Provenienti probabilmente dai Balcani e dall’Asia Minore, erano dottrine che risentivano della visione cosmica del dualismo iraniano e derivavano principalmente da grandi movimenti quali l’Arianesimo, il Paulicianesimo e il Bogomilismo. Favorite dai sempre più frequenti contatti intrecciati con l’oriente a seguito delle crociate, queste eresie sembrano raggiungere il nord della Francia attraverso cavalieri franchi di passaggio a Costantinopoli, città in cui le dottrine erano via via confluite. In seguito si diffusero in Germania e nella Francia del sud, espandendosi infine anche in Italia attraverso le valli occitane.
I catari in Europa.
Con una lettera indirizzata nel 1144 a San Bernardo, l’abate Everwin di Steinfeld, parla di alcuni eretici presenti a Bonn e a Colonia finiti sul rogo l’anno prima. Segnala che tra di loro si chiamano Apostoli ed hanno un loro Papa; che nulla posseggono perché nulla possedevano Cristo e gli apostoli, che con l’imposizione delle mani accolgono gli uditori tra le fila dei loro credenti e che quelli tra di loro che sono stati battezzati si chiamano Eletti, i quali hanno il potere di battezzare altre persone non con l’acqua, come fece Giovanni il Battista, ma, attraverso l’imposizione delle mani, in Spirito Santo e fuoco.
Racconta che la loro preghiera è il Pater, anche se leggermente dissimile da quello canonico, che si difendono dalle accuse di eresia con le parole di Cristo e degli Apostoli ed affrontano con inconcepibile serenità i roghi cui sono destinati. “Come può essere che questi figli del demonio possano trovare nella loro eresia un coraggio simile alla forza che Cristo infonde ai propri religiosi?” chiede sorpreso Everwin a Bernardo.
La forza d’animo che sosteneva questi individui davanti alla sentenza di morte faceva parte della loro dottrina. Disprezzando a tal punto la materia di cui era composta ogni cosa tangibile (quindi anche il loro corpo), affrontavano la liberazione dello spirito imprigionato dentro di loro da Satana con grande serenità. Certamente, l’incredibile coraggio non si palesò in tutti coloro che professarono questa fede; di fronte al vaglio tra rogo ed abiura molti rientrarono nei ranghi del cattolicesimo e alcuni divennero addirittura a loro volta famosi inquisitori delegati dalla sede apostolica contro le eresie; ma lo stoicismo con cui i più affrontarono le pire purificatrici della chiesa di Roma rimase nella leggenda. La lettera dell’abate Everwin è considerata il primo documento che parla dei catari in Europa anche se l’origine esatta dei primi focolai del catarismo si perde, purtroppo, nella scarsezza di documentazioni precise, a loro volta mescolate nella confusa presenza di varie dottrine dualistiche molto simili tra loro. I diversi nomi assunti in base alla localizzazione geografica, al nome dei loro capi, alla professione esercitata o agli storici movimenti eretici da cui si supponeva derivassero queste dottrine quali Manichei, Ariani, Valdesi, Umiliati, Pubblicani, Patarini, Garattesi, Tessitori, Albigesi, Pifli, Bugri, Pauliciani, Bogomili e altri ancora, favorirono la biblica confusione delle esatte origini del catarismo europeo. Il termine Cataro, con cui questi eretici passeranno alla storia, sarà coniato solo verso la metà del 1100 ad opera del monaco Eckbert, abate cistercense di Schönau presso Heidelberg. Traducendo il dialettale Ketter, vocabolo dispregiativo con cui gli eretici erano chiamati in Germania, con il termine greco foneticamente simile Kαθαροι (Cataroi, ovvero ‘I puri’), Eckbert finì con l’affibbiare inconsapevolmente un termine decisamente edificante per coloro che invece doveva condannare. I catari si definivano Poveri di Cristo, Eletti, Apostoli, Cristiani o Boni cristiani, Boni homini o anche Amici di Dio, che altro non era che la traduzione del termine ‘Bogomilo’ (da bog = amico e mil = Dio), ma certamente mai usarono il termine Puri o Catari. Anche il termine Perfetti, attribuito al clero cataro che comprendeva sia uomini che donne, era stato loro attribuito dagli inquisitori in quanto erano definiti eretici perfectus ovvero “completi”.
I Catari in Italia.
Dei catari nel sud della Francia, diciamo in quella regione del Languedoc-Roussillon con ampi sconfinamenti nell’Ariège dove il catarismo assunse quelle forti tinte della leggenda che conosciamo, sappiamo molte cose. Conosciamo l’orrore del massacro di Béziers, abbiamo tifato per Pierre Roger de Mirepoix, sognato di ritrovare il Graal lanciato da Esclarmonda nella profondità del massiccio del Tabe, odiato Simon de Montfort e letto e riletto René Nelli e Déodat Roché ma poco o nulla sappiamo dei catari in Italia.
Conosciamo le fasi dell’assedio al castello di Montsegur ma forse non il sottile legame che allacciarono, negli ultimi giorni dell’epico assedio, l’ardimentosa fortezza e la città italiana di Cremona. Magari ci siamo commossi davanti alla stele sulle pendici del poggio nel luogo chiamato Prat dels cramat che ricorda il rogo di duecento catari e poco sappiamo sui centosettanta arsi vivi nell’arena di Verona nel 1278. Pensiamo che dopo la caduta di Montségur la gerarchia catara sia stata praticamente distrutta e non immaginiamo che la sua ripresa, fino al rogo dell’ultimo cataro Belibaste avvenuta a Villerouge Termenès nel 1342, sia dovuta a un noviziato tutto italiano dei fratelli Autier, nativi del Sabarthes. L’Italia si poneva, dunque, in una posizione di tutto rilievo sulla questione catara. Una posizione pressoché cancellata dalla nostra memoria storica.
Eppure, tra il 1150 e il 1250, il forte sostegno della politica ghibellina alle eresie, non per credo ma semplicemente come forze che si opponevano al papato, fece in modo che durante la crociata Albigese molti occitani emigrassero nel nostro paese trovando protezione. Tra il nord e il centro della nostra penisola erano presenti sei chiese catare a capo di significative comunità, mentre a poca distanza da Milano vi fu addirittura una chiesa che contava negli anni settanta del 1200 qualcosa come millecinquecento Perfetti sui circa quattromila presenti in tutta Europa.
Mentre nella Linguadoca ancora si raccontano le gesta dei Bons Hommes e delle Bonnes Femmes, della tenacia della testimonianza evangelica dei loro capi spirituali, dell’incredibile macchina repressiva messa in moto dalla chiesa di Roma, prima con una sanguinosa crociata e, in seguito, con l’inumana e vergognosa istituzione conosciuta con il nome d’Inquisizione, in Italia il loro ricordo è talmente flebile che perfino nella città di Concorezzo è difficile trovare memoria di quest’evento; eppure proprio in questa cittadina tra Monza e Milano si fondò la prima chiesa ed ebbe inizio la storia del catarismo italiano.







I testi e la storia.
E’ una storia che conosciamo quasi esclusivamente attraverso le pagine dei documenti dei tribunali dell’Inquisizione, di cronache, scritti eresiologici e alcune Summe antiereticali, poiché sono pochissimi i testi dei Buoni cristiani sopravvissuti al tempo e agli uomini; si possono contare, in definitiva, sulle dita di una mano.
I Rituali liturgici conosciuti sono solo tre: uno, scritto in occitano, è conservato a Lione ed era considerato l’unico esistente. Un altro, conservato nella collezione valdese al Trinity college di Dublino, è stato attribuito solo intorno al 1960 alla chiesa catara e l’ultimo, purtroppo non in ottimo stato, è stato rinvenuto nella biblioteca Nazionale di Firenze nel 1939.
Il testo più celebre, l’Interrogatio Iohannis apostoli et evangelistae in cena secreta regni coelorum de ordinatione mundi istius et de principe et de Adam, più conosciuto come ‘Cena segreta’, è la trascrizione in latino di un documento ancora più antico che parla di una rivelazione segreta fatta da Gesù all’apostolo prediletto durante l’ultima cena, quando, nell’iconografia più conosciuta, il capo del giovane Giovanni era reclinato sul petto del Maestro. A portarlo in Italia dalla Bulgaria verso il 1190 fu un Italiano, Nazario, quarto vescovo cataro di Concorezzo, che lo chiamava semplicemente ‘Segreto’: il segreto dei catari di Concorezzo. Il prezioso testo passò in breve tempo anche in Linguadoca, si suppone prima del 1209, anno della caduta di Bézier e Carcassonne, confermando la frequente ed abbondante frequentazione tra le comunità italo-occitane e finendo nelle mani degli inquisitori durante la feroce repressione. Una copia è tuttora conservata negli archivi del tribunale dell’Inquisizione di Carcassonne.
Sul dualismo cataro il testo più importante esistente al giorno d’oggi è stato scritto da un altro italiano: Giovanni de Lugio, vescovo della chiesa catara di Desenzano, sul Garda. Considerato il maggior teorico del catarismo, De Lugio scrisse nel 1240 questo Liber de duobus principiis, ovvero il “Libro dei due principi”, di cui ci è pervenuto solo un volume ridotto a circa cinque quaderni formati da un totale di quarantatré fogli, a fronte dell’originale composto da ben dieci quaderni. Fu scoperto dal domenicano Padre Antoine Dondaine nella Biblioteca Nazionale di Firenze nel 1939 insieme al terzo Rituale liturgico di cui abbiamo accennato prima. L’importantissimo ritrovamento ha consentito, dagli anni ’40 del secolo appena trascorso, la preziosa formazione di un corpus di testi originali catari che ha dato il via ad una vasta e rinnovata ricerca e studio sulla materia.
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Il Consolamentum e l’Endura.Il Consolamentum era l’unico sacramento previsto dalla dottrina catara. Raggruppava in pratica i sacramenti cattolici del battesimo, della cresima, l’ordinazione e l’estrema unzione. Era trasmesso attraverso l’imposizione delle mani, un battesimo di fuoco, contrapposto a quello cristiano compiuto con acqua, che infondeva lo Spirito Santo; un po’ quello che avviene con la nostra Cresima. Si intuisce facilmente che dopo aver ricevuto il Consolament, che assolveva tutti i peccati pregressi, non era più possibile peccare di nuovo, pena l’invalidità del rito ricevuto e che, nel caso, si sarebbe dovuto ripetere tutta la preparazione e la cerimonia. Il rito, cui erano sottoposti i Perfetti per predicare, era conferito anche ai semplici credenti solo in punto di morte perché era in pratica impossibile peccare di nuovo. Poiché dopo questo sacramento i consolati dovevano recitare obbligatoriamente ad ogni pasto la loro preghiera del Padre nostro, molti, impossibilitati a farlo per malattia, preferivano semplicemente non mangiare né bere più, lasciandosi morire. Il termine Endura, che designa questa specie d’eutanasia, significa digiuno in lingua occitana.





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(II parte)
E’ Lombarda la prima chiesa catara.

La descrizione più dettagliata degli esordi italiani si trova nel Tractatus de hereticis (1266) di Anselmo d’Alessandria, inquisitore domenicano.
Siamo presumibilmente nella metà del 1100 quando un anonimo notaio francese, proveniente dalla Linguadoca e domiciliato a Roccavione in provincia di Cuneo, giunge a Concorezzo. Qui avvicinò quattro personaggi che avrebbero diffuso il catarismo in Italia, sono: Marco, probabilmente becchino poiché lo si designa con il nome di ligonizator dal latino ligonis che sta per zappa (termine con cui erano chiamati, appunto, gli scavafosse cimiteriali), Giovanni Giudeo, tessitore; un certo Giuseppe, fabbro e infine Aldrico di Bando di Milano, di cui non si conosce molto più del nome.
La scelta di Marco e dei suoi compagni, non può essere stata né casuale, né fortuita. Si presuppone che avessero già una certa fama tra i catari d’oltralpe e che soprattutto Marco possedesse una discreta istruzione poiché per diventare Perfetto, come vedremo più avanti, bisognava come minimo saper leggere, fare di conto e avere una certa istruzione per fare del proselitismo tra la gente, fatto piuttosto anomalo se lo consideriamo esclusivamente uno ‘scavafosse’. Il mestiere di Giovanni Giudeo ci ricorda che uno dei nomi con cui furono chiamavano i catari era anche Texerantes, tessitori, poiché era una professione che i predicatori eretici svolgevano spesso. Giovanni potrebbe quindi essere già un simpatizzante o un credente cataro. Anche il lavoro di Giuseppe, fabbro, svela i suoi probabili contatti con gli occitani. La zona, infatti, era rinomata per la fabbricazione d’aghi e spilli e il commercio fiorentissimo di questi utensili forgiati a mano dai fabbri, raggiungeva anche i lontani confini pirenaici. Del resto il Piemonte, attraverso il Col di Tenda per la Provenza e il Monginevro per il Delfinato, era un passaggio quasi obbligato per il commercio tra la Francia e la ricca Lombardia ed era anche la strada più frequentata da chi sfuggiva alle persecuzioni religiose. Già verso il 1030, a Monforte d’Alba vicino a Cuneo, gli abitanti e i feudatari della cittadina professavano un credo dualistico e forse furono davvero i primi catari di cui si ha menzione in Italia. Furono assediati, espugnati e condotti a Milano per ordine dell’arcivescovo di Milano, Ariberto d'Intimiano e di quello d’Asti, Alrico, per l’abiura o il rogo. Le esecuzioni di chi non rinnegò la propria fede avvennero nei pressi dell’attuale Corso Monforte che ne perpetua, nel nome, il triste ricordo.
Dopo questo primo incontro i quattro si recarono a Roccavione per incontrare un vescovo che li avrebbe perfezionati nello studio della dottrina. Questo vescovo, di cui non conosciamo il nome, si era però trasferito a Napoli per motivi ignoti e i quattro dovettero affrontare il viaggio e la permanenza nella città partenopea per oltre un anno, il tempo minimo necessario per la consacrazione. Si ha conferma, dunque, che fossero quattro persone motivate, fidate e molto probabilmente ben conosciute perché non si spiega altrimenti come sopravvissero per oltre un anno lontano da casa senza lavoro, se non con una sovvenzione che doveva provenire dalle stesse chiese catare.
Poiché la gerarchia catara prevede la presenza di un vescovo, di un figlio maggiore e di un figlio minore che si sarebbero succeduti progressivamente alla morte del vescovo, possiamo pensare che il primo nucleo di Perfetti catari era stato formalmente istituito già alla fine del soggiorno partenopeo.
Marco, alla fine della catechizzazione e dopo aver ricevuto il Consolamentum (la ‘entendensa del be’, la conoscenza del bene), viaggerà per tutta l’Italia per unificare le comunità italiane presumibilmente già presenti sul territorio, ma che fino ad allora non avevano avuto alcun referente.
Marco però, non poteva sapere che il dualismo cataro aveva all’origine tre chiese indipendenti tra loro: la Chiesa di Bulgaria dal dualismo moderato (esistono due principi creatori, ma uno solo è Dio); la Chiesa di Dragovitza dal dualismo assoluto (esistono due principi creatori ognuno dei quali è un Dio o del male o del bene) e infine la Chiesa di Slavonia dal dualismo misto ma tendenzialmente moderato, diffuso solo in alcune regioni della Jugoslavia.
Le differenti posizioni del credo di queste tre dottrine genereranno, nel volgere di pochi anni, una grave situazione di dubbio che causerà lo scisma tra le chiese catare italiane.
Cerchiamo di capire le ragioni che portarono questa complicata vicenda alla secessione tra le chiese. Marco aveva aderito alla Chiesa Bulgara, moderata, presente in Francia, Linguadoca e Lombardia, ma poco dopo la sua formazione fu contattato da Niceta, capo della chiesa di Dragovitza (forse informata di questi nuovi nuclei che stavano nascendo in Italia e desiderosa di convertire i neofiti a questa corrente), che lo persuase di essere in errore e di seguire il credo sbagliato in quanto solo il dualismo assoluto era quello che portava alla salvezza. Marco si convinse infine a rinunciare all’Ordo Bulgarie cui apparteneva e ad abbracciare il nuovo credo, ma qui cominciarono i problemi che ebbero un catastrofico effetto domino nel volgere di pochi decenni. Marco era stato ordinato, secondo Niceta, con un Consolamentum nullo, visto che il vescovo di Napoli non apparteneva a questa chiesa, e quindi doveva essere di nuovo indottrinato e battezzato. Non solo, purtroppo tutti quelli che da Marco avevano ricevuto il Consolamentum dovevano essere a loro volta indottrinati e riconsolati di nuovo. Furono contattate tutte le chiese che dipendevano da Concorezzo e tutte si convertirono all’ordine dragovista tranne Firenze, che rimase fedele alla chiesa moderata di Bulgaria.
Queste notizie raggiunsero ben presto l’Occitania che in quel periodo era alle prese con problemi di confusione a carattere territoriale tra le varie diocesi e la preparazione di una linea difensiva comune da tenere di fronte all’avanzare, sempre più opprimente, della repressione. Tutto ciò fece sì che oltralpe si lanciò la proposta di indire un concilio ecumenico (proprio come quelli della chiesa romana) a San Felix de Caraman, non lontano da Tolosa, nel 1167 nel quale fu invitato Niceta. Da questo concilio nascerà un catarismo dal dualismo assoluto strutturato in cinque chiese francesi e con il nostro Marco Vescovo di quella Italiana con sede a Concorezzo. Ma quando tutto sembrava andare per il meglio, l’impiccio iniziale si tramutò in una vera catastrofe e a questo punto purtroppo i documenti si fanno confusi, non è chiaro ad esempio se Marco sia già deceduto quando lo scandalo travolse le chiese catare o se si stesse impegnando per risistemare le cose. Certo è che sarà Giovanni Giudeo, Figlio maggiore e suo successore, a portare avanti la situazione piuttosto complicata. Accadde infatti, che la chiesa bogomila di Bulgaria, saputo del rinnovamento nelle chiese occidentali sotto la sollecitazione di Niceta, passò presto al contrattacco. Mandò in Italia un certo Petracco che informò i catari italiani con una notizia sconvolgente: il vescovo Simone, che aveva consolato Niceta, era stato scoperto in congiunzione carnale con una donna, un fatto gravissimo che invalidava tutta la sua opera episcopale compresa l’ordinazione di Niceta il quale a sua volta non avrebbe potuto trasmettere il Consolamentum a nessuno, tanto meno a Marco. Le delazioni riferirono anche di un peccato carnale di Niceta, precipitando le chiese italiane in uno stato di confusione totale che le divise in due fazioni: i moderati (come quelli appartenenti alla chiesa di Firenze che non accettarono la conversione di Niceta) e gli assoluti. Dalla Francia, dove ci si rivolse per un consiglio, suggerirono di mandare uno dei due contendenti, in questo caso Giovanni Giudeo o Pietro di Firenze, in Bulgaria per essere riconsolato e poter riconsacrare legittimamente tutti gli altri al suo ritorno. Al rifiuto del fiorentino Pietro, Giovanni si dimise per evitare uno scisma e per facilitare l’accordo e s’indisse un nuovo Concilio nel 1190 a Mosio, nel mantovano, per risolvere la situazione. Si convenne che ogni fazione scegliesse il rappresentante della parte opposta e le votazioni favorirono Garatto, della chiesa di Concorezzo, che avrebbe affrontato il viaggio in Bulgara sostenuto economicamente da tutte le chiese italiane. Durante i preparativi però, ben due testimoni asserirono che anche Garatto si era reso colpevole di un peccato carnale, vanificando definitivamente tutti i buoni propositi del Concilio di Mosio. Sorsero così, nell’impossibilità di un nuovo accordo, le sei chiese autonome italiane divise tra i tre ordini originari: Concorezzo (Bulgariae, mitigato), Desenzano (Drugunthiae, assoluto), Mantova (Sclaveniae mitigato), Vicenza (Sclaveniae, mitigato), Firenze (Bulgariae, mitigato), Spoleto (Bulgariae, mitigato). La profonda differenza dottrinale tra i vari ordini, favorì indubbiamente l’indebolimento del catarismo italiano che con la progressiva perdita dell’appoggio ghibellino si scopriva sempre più impotente di fronte agli attacchi degli inquisitori.







La Santa Inquisizione.
Benché il tentativo di arginare le eresie del cristianesimo si manifesti sin dagli albori della nuova religione e non siano mancati da subito anatemi, scomuniche e condanne a morte, è la parola Inquisizione che più ci ricorda quanto sia stato pericoloso manifestare le proprie… “scelte” (Eresia, dal greco αἵρεσις airesis, scelta).
Nata nel 1184 al concilio di Verona, che fu sede del Papato tra il 1181 e l’85 e che dovette risentire parecchio della cospicua presenza dei catari della zona, la Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem di Lucio III si può considerare l’inizio della forte repressione alle eresie presenti in Europa e in particolare al catarismo, che aveva espresso tutta la sua pericolosità indicendo impudentemente addirittura, come abbiamo visto, un Concilio a Sain Felix nel 1167. Tra le sue righe compare per la prima volta il termine Inquisizione e anche se sembra partire con una blanda azione di catechesi, improntata sulle parole di San bernardo (Fides suadenda non imponenda "La fede deve essere indotta con la persuasione, non con la forza"), legittimava di fatto gli arresti e i processi con conseguenti punizioni anche atroci e le confische dei beni che già si attuavano profusamente. In seguito all’evidente fallimento delle predicazioni Cistercensi, l’Inquisizione, attraverso Bolle e Brevi successive (sempre più feroci e restrittive), affidato il compito d’inquisitore a Francescani e Domenicani e appoggiata dall’intervento statale del braccio secolare, veleggerà inarrestabile col vento in poppa fino ad affondare apparentemente solo nel 1908, camuffandosi però sotto il nome di Congregazione della sacra, romana ed universale Inquisizione del santo Offizio prima (1542), e di Congregazione per la Dottrina della Fede poi (1965). Nel febbraio del 1231 Papa Gregorio IX promulga la bolla Excommunicamus. E’ in questo documento che si trova la disposizione di bruciare i cadaveri degli eretici. A parte l’orrore della pena, per i cristiani il rogo era di per sé una condanna raccapricciante poiché impediva la Resurrezione del corpo nel giorno del Giudizio Universale, mentre per i catari non era che un mezzo per liberare lo spirito puro imprigionato nel loro corpo da Satana; per questo i veri credenti affrontavano questa prova con acquiescenza tra lo sconcerto generale. La condanna degli inquisitori, comunque, non si fermava neppure di fronte alla morte. Chi era riconosciuto eretico, anche se defunto da anni, era meticolosamente dissotterrato e quel che ne rimaneva veniva solertemente bruciato sul rogo. Nel 1283, redatta la condanna postuma del famoso condottiero ghibellino di fede catara Farinata degli Uberti, ricordato anche da Dante nella sua Commedia divina, si riesumarono i resti che furono bruciati sulla pubblica piazza.
Furioso per l’efferato assassinio nei pressi di Milano di Pietro da Verona (frate domenicano figlio di catari, incaricato dallo stesso Papa di contrastare le eresie in Lombardia), nel 1252 Innocenzo IV introdusse e legittimò l’uso della tortura negli interrogatori con la bolla Ad extirpanda, un’istituzione che generò, circa due secoli dopo, lo sciagurato manuale di tortura Malleus maleficarum, opera dei due frati domenicani Kramer e Sprenger. Fa davvero ponderare il fatto che il Malleus non sia mai stato messo all’indice dei libri proibiti dalla Chiesa, mentre entra a pieno titolo nel 1766 quel “Dei delitti e delle pene” che si scaglia contro la tortura e la pena di morte, vanto del nostro Illuminismo e pietra miliare di Cesare Beccaria. Un’evidente diversa valutazione sul rispetto dell’Uomo.











Gli ultimi fuochi.
La nostra Montségur fu il rogo di Verona che annientò la chiesa di Desenzano il 13 febbraio 1278, il nostro Hugues des Arcis fu Alberto della Scala, Pinamonte Buonaccolsi il frate inquisitore al posto dei domenicani Durant e Ferrier. I catari italiani si rifugiarono a Sirmione credendo alla protezione di Mastino Della Scala come nell’Ariège si credette a quella di Raimondo VII; la minaccia di scomunica e la promessa del perdono del Papa rimangiarono la promessa di entrambi. Bruciarono molti vescovi italiani e francesi che si erano rifugiati da tempo a Sirmione, mentre nel resto dell’Italia le conversioni al cattolicesimo di quasi tutte le altre chiese nel giro di pochi anni, mise fine al capitolo dei catari italiani.







Almeno ufficialmente.
Quasi trent’anni dopo, un famoso episodio legato a Rinaldo, arcivescovo cattolico di Ravenna, c’induce a riflettere. Rinaldo è ricordato per aver clamorosamente assolto nel 1311, durante il processo da lui condotto in qualità di inquisitore, i cavalieri Templari presenti nell’Italia settentrionale. Egli sostenne fermamente che: "Debbono essere considerati innocenti coloro per i quali è possibile dimostrare che hanno confessato solo per timore della tortura. E innocente anche chi ha ritirato la confessione estorta con la violenza oppure non ha osato ritirarla temendo di essere di nuovo torturato". Si è spesso parlato della probabile simpatia tra Templari e catari senza nessuna ufficialità, forse qualcosa si spiega nel nome dell’illuminato vescovo ravennate: Rinaldo da Concorezzo.
Benché forse priva di quelle pagine esaltanti scritte per i catari occitani, rimane il sospetto, però, che l’Italia sia stata la silenziosa destinazione finale per quell’indefinito ‘qualcosa’ sfuggito agli assedianti di Montségur. Le cronache del tempo documentano che ben due messaggeri, Raimond de Niort nell’ottobre del 1243 e Joan Rey nel gennaio 1244, recarono clandestinamente alla comunità dell’Ariège, dispacci provenienti da Cremona e che, in seguito, il vescovo cataro tolosano trovò rifugio in Italia proprio a Cremona, ospite del ghibellino Oberto Pelavicino. I quesiti irrisolti sulla destinazione del consistente tesoro che lasciò clandestinamente la fortezza nel gennaio 1244 e sulla missione segreta dei quattro fuggitivi calatisi nottetempo nell’orrido che fiancheggia il castello nel marzo dello stesso anno, pochi giorni prima dell’infame rogo, potrebbero avere una risposta ancora una volta a pochi passi da noi.
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Desenzano, Sirmione e Como accolsero un gran numero di catari poiché il lago permetteva loro l’approvvigionamento costante di pesce. I Catari erano, infatti, vegetariani convinti e credevano nella reincarnazione; ogni essere concepito con atto sessuale contemplava la trasmigrazione dell’anima, impedendo di fatto ai catari di uccidere animali. Nel medioevo era credenza comune che i pesci non si riproducessero attraverso il coito, e quindi per i catari erano perfettamente edibili. Il consumo in grandi quantità di pesce da parte della comunità catara, oltre ad essere facilitato, passava anche pressoché inosservato poiché era cibo comune per i residenti, consentendo di non attirare eccessivamente l’attenzione degli inquisitori. Cosa ben diversa sarebbe stato infatti doverselo procurare, per esempio, nei mercati.














domenica 10 ottobre 2010

La ballata di Breùs - trad. G.Pascoli



I
Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvàn pensò che fosse San Michele:
s'inginocchiò: "Signore San Michele,
non mi far male, per l'amor di Dio!".
"Né mal fo io, né San Michel son io.
No: San Michele non poss'io chiamarmi:
cavalier, si: son cavaliere d'armi".
"Un Cavaliere? Ma che cosa è mai
guardami o figlio e che cos'è saprai"
"Che è codesto lungo legno greve?"
"La lancia: ha sete, e dove giunge, beve".
"Che è codesta di cui tu sei cinto?".
"Spada, se hai vinto; croce se sei vinto".
"Di che vesti? La veste è pesa e dura".
"E' ferro. Figlio, questa è l'armatura".
"E tu nascesti già così coperto?".
Rise e rispose il cavalier:; "No, certo".
"E chi la pose, dunque, indosso a te?".
"Chi può". "Chi può?". "Ma, caro figlio, il re!".

II
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: "Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
ho visto quello che non vidi mai!
un uomo bello più del San Michele
ch'è in chiesa, tra il chiaror delle candele!".
"Non c'è uomo più bello , figlio mio,
più bello, no, d'un angelo di Dio".
"Ma sì, ce n'è, mammina, se permetti,
ce n'è mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
e aver veste di ferro e sproni d'oro".
La madre a terra cadde come morta,
che già Morvan usciva dalla porta;
Morvan usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò sol un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, ne salutò persona
eccolo fuori, ecco che batte e sprona:
eccolo già lontano dal castello,
dietro quell'uomo, ch'era così bello.

III
Dopo dieci anni, dieci tutti interi,
Breus, il cavalier de cavalieri,
sostò pensoso avanti a quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c'era tant'erba, c'era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come una siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L'edera aveva la muraglia invasa:
l'erba copria la soglia della casa.
E l'uscio era imporrito e tristo a mo'
di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò..
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. "Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?".
"Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l'albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono".
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in pianto.

IV
"Perché piangete, buona damigella?
perché piangete, cara damigella?".
"Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
E' un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello".
"Non avete la madre, o damigella?
non un altro fratello? una sorella?".
"Nessuno... almeno ch'io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
La mia madre morì dal dispiacere
quand'e' partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
pel mio povero cuore altro non c'è".

V
Mise un singhiozzo il cavalier d'un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi che aveano il pianto sulle ciglia.
"Iddio la mamma ancora a voi l'ha presa
c'ora piangete, che m'avete intesa?".
"Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: Prendila! fui io".
"Voi? Ma chi siete? Qual'è il vostro nome?".
"Morvan il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io son pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che non l'avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
o sorellina, non sarei fuggito!s
Oh! per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch'a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino!".