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giovedì 8 ottobre 2015
mercoledì 24 aprile 2013
BULIBRIA: L'INSAZIABILE VOGLIA DI LEGGERE
Per buttarsi tra le pagine dei libri che hanno già una storia. Per ritrovare un libro perduto, un'edizione rara o, semplicemente, un libro accattivante ancora non letto, vi aspettiamo domenica 12 Maggio a Morimondo per la prima edizione di un mercatino di libri, ricca di eventi collaterali.
martedì 8 gennaio 2013
Il monte Bugarach e il Meridiano di Parigi Le triangolazioni di Méchain per calcolare la lunghezza del metro.
Le
moderne triangolazioni del territorio di Rennes-le-Château, alla ricerca di
bizzarri schemi geometrici, hanno un precedente illustre e di straordinario
interesse scientifico: tra il 1792 ed il 1799 Pierre Méchain (1744-1804) e Jean
Baptiste Delambre (1749-1822) furono impegnati in un meticoloso lavoro di
triangolazione da Dunquerque a Barcellona con l’intento di calcolare la
lunghezza del meridiano terrestre e ottenerne la misura del “metro”, definito
come la decimilionesima parte del quarto del meridiano stesso. Per
l’installazione di una stazione di rilevamento venne scelto, tra gli altri, il
monte Bugarach, luogo entrato a far parte dello scenario mitologico di
Rennes-le-Château come Montagna Incantata. Per Méchain fu uno dei luoghi più
difficili da scalare, sia per la sua conformazione sia per le condizioni
atmosferiche avverse. Insieme al Cardou, il Pech de Thauze (meglio conosciuto
come Bugarach dal nome del paesino ai suoi piedi) fa parte della scenografia
del mito di Rennes-le-Château. Maestoso e possente, fa bella mostra di sé per
un largo raggio nei dintorni e si svela in tutta la sua bellezza sulla strada
che da St. Paul de Fenouillet, attraverso le Gorges de Galamus, arriva a
Rennes-les-Bains.
Il
Bugarach è legato al Meridiano di Parigi fin dalla nascita di questa linea sul
suolo francese (linea rosa dal
colore, forse, della striscia di rame che ne sottolineava il passaggio a terra)
e compare sia negli scritti di Cassini che nei diari di Méchain, l’astronomo
incaricato dal Re Luigi XVI di misurare l’intero arco di meridiano a sud del
paese, da Barcellona a Rodez; sarà il suo collega Delambre ad occuparsi della
zona settentrionale, da Dunquerque a Rodez. Il progetto era definire
esattamente la lunghezza del metro, fissato dagli Accademici nella
decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Se preferite, un
quarantamilionesimo del meridiano istituendo, una volta per tutte una misura
universale: “Per tutti i tempi, per tutti gli uomini”, secondo Condorcet.
Lo
straordinario progetto giustifica l’impegno richiesto affinché la rilevazione
delle misure sia il più possibile esatta: quella sottile linea rosa sarà la
nuova “misura del mondo”.
Dal
Meridiano, infatti, nascerà il Sistema Metrico Decimale (dal greco Metron:
misura, Delambre e Méchain ammiravano entrambi Omero) e dal Metro si
ricaveranno anche misure di area (il metro quadrato), di volume (il metro cubo)
e di peso: il chilo sarà definito come il peso di un decimetro cubo d’acqua
distillata.
L’impresa
impegnò i due studiosi per sette anni tra il 1792 ed il 1799, nel periodo
storico che designa la fine della monarchia e l’inizio del Consolato.
A
complicare ulteriormente questo difficile periodo ci sarà anche la guerra del
1793 tra Francia e Spagna, scoppiata in seguito all’esecuzione di Luigi XVI
cugino di Carlo IV di Borbone re di Spagna, che impedirà le misurazioni di
Méchain, impegnato proprio a quel tempo sui Pirenei, fino al 1795.
Partiti
con salvacondotti firmati dal Re, i due scienziati dovettero spesso
pazientemente attendere nuovi lasciapassare da Parigi, trovandosi ad essere
rappresentanti involontari di quel caleidoscopico gioco di potere che si teneva
nel frattempo nella capitale.
Ricevuti
nei villaggi a volte dai Sudditi, costretti a dar loro qualsiasi cosa in nome
del Re,
a
volte dai Cittadini, che nulla volevano più avere a che fare con la monarchia,
suscitarono quasi sempre incomprensione ed ostilità, rischiando spesso la
morte. Le loro postazioni d’osservazione e rilevamento vennero più volte
distrutte, in genere da atti di puro vandalismo, più spesso, essendo fatti con
buon legname, dai bisogni primari di una popolazione ormai stremata dalla
povertà.
Arrivato
nell’Aude, Méchain dovrà scalare, il Bugarach per approntarvi il segnale,
un’importante
stazione
di rilevamento delle sue triangolazioni che venivano poste sui punti più alti
del panorama: torri, castelli, campanili, vette.
La
montagna sacra rivelerà la sua forza e la sua asprezza durante tutto il tempo
occorso allo studioso per le misurazioni, cercando di scrollarsi dalla cima
uomini ed attrezzature indesiderate con la forza del vento e l’insidia del
percorso. Méchain non ha né il fisico né l’allenamento per queste scalate, il
Bugarach sarà ricordato come una delle tappe più dure affrontate.
Denis Guedj ha
raccontato l’avventura di Méchain e Delambre nel libro Il meridiano,
documentandosi con le lettere che si scrissero e ripercorrendone le tappe.
L’avventura sul Bugarach è così descritta:
“Fu subito terribile. Il picco di
Bugarach: una montagna terrificante, niente resiste alla sua violenza. Si dice
che vi fossero morte migliaia di persone. La carovana seguiva il capofila, un
giovane montanaro di nome Agoustene, che conosceva bene il picco. […] A tratti
il sentiero spariva, c’era solo la nuda roccia. […] Il vento cominciò a
soffiare, il passaggio divenne così stretto e scosceso che dovettero mettersi a
quattro zampe, costretti ad aggrapparsi ai bossi e agli spuntoni di roccia e, a
volte, costretti perfino a strisciare. Eroso dalla pioggia il terreno si
sgretolava sotto i piedi, provocando cadute di schegge. […] La carovana
raggiunse molto tardi la cima. Due sorprese attendevano Méchain: una buona,
l’altra cattiva. Il paesaggio si estendeva a perdita d’occhio per decine di
leghe; era la notizia buona. La cattiva notizia fu l’incredibile strettezza
della piattaforma. Impossibile piantarvi la tenda; c’era appena lo spazio per
installarvi il segnale. […] Ogni sera quindi, abbandonavano gli strumenti alla
volontà di Dio e ridiscendevano a valle presso la Métairie des Pâtres dove
avevano il loro quartier generale.
Mai
nessuno volle passarci la notte e nemmeno rimanerci senza compagnia durante il
giorno.”
La
lettera originale, da cui è stato tratto il testo ed indirizzata a Lalande a
Parigi, continua così: “Guardando gli uomini che trasportavano le casse del
Cerchio ed il legname per il segnale, mi venivano i brividi. Gli uomini che
hanno trasportato le casse fino in cima, hanno giurato che nessuna autorità
potrà più costringerli a farlo di nuovo. La cosa grave è che questa postazione
non può essere sostituita da nessun’altra. Mi sono disperato ed ho perso tutto
il mio coraggio quando ho visto questo segnale, che è costato tanta fatica,
abbattuto da un furioso uragano. La montagna è terribile, niente resiste alla
sua violenza. Bisogna scendere strisciando ventre a terra se non si
vuole
essere portati via come foglie.”
Nonostante
tutto, le misurazioni furono effettuate e regolarmente consegnate. Méchain
troverà qualche giorno di riposo nella casa del sindaco di Estagel, Messieur
Arago, pochi chilometri a sud di Rennes-les- Bains sulla strada per Perpignan,
il 23 Vendemmiaio 4 (15 ottobre 1795).
François,
il figlio maggiore del primo cittadino, che aveva allora circa nove anni, restò
affascinato da Méchain e dai suoi strumenti, tra cui spiccava il nuovissimo
Cerchio ripetitore di Borda, un prezioso strumento di misurazione per graduare
gli archi di cerchio (che l’astronomo rischiò di perdere proprio durante la permanenza
su Bugarach), tanto da intraprendere in seguito gli studi che lo porteranno a diventare
membro titolare, a soli ventitré anni, dell'Accademia delle Scienze e a legare
il suo nome al Meridiano di cui perfezionò le misure fino alle Baleari, come
confermano le placche di bronzo che troviamo a Parigi, lungo la Roseline.
Maestoso
e temibile come l’Olimpo, il Monte Bugarach non può che far nascere incredibili
leggende.
Le
vibrazioni che provengono dall’intimità della terra si rincorrono tra le sue
caverne e nei letti degli antichi fiumi sotterranei; la forza creativa del suono
cosmico dell’OM cerca lo sbocco verso il cielo attraverso le sue cime, come dai
pinnacoli di una cattedrale gotica.
E’
la grande tana della Vöivre, il condotto del Vril. Gli anfratti nascondono il
mistero del tempo che non passa, come se il meridiano segnasse anche il confine
tra lo spazio ed il tempo. Bambini ed animali persi e ritrovati dopo qualche
giorno senza nessun patimento visibile, uomini a cui dopo alcuni giorni di
oblio nelle sue viscere non è cresciuta la barba, mammuth blu che governano,
parlando in un purissimo Basco, un regno sotterraneo chiamato Grande Euscarie,
custode feroce
dell’Arca
dell’Alleanza, il Bugarach è, di certo, materia inesauribile per le storie
raccontate davanti al camino dell’osteria del paese nelle lunghe e fredde notti
invernali, ma sembra che qualcuno le abbia prese maledettamente sul serio.
Daniel Bettex, per
esempio, ne rimase affascinato. Cittadino svizzero appassionato di storia
Catara, prese contatti con l’associazione Société du Souvenir et des Etudes
Cathares di Arques e si dice che lo stesso Deodat Roché lo indirizzò verso il
Bugarach. Effettuò più volte esplorazioni sui versanti della montagna e
all’interno delle sue grotte, forse si avvicinò più di tutti al suo segreto, ma
la morte improvvisa portò via ogni speranza di conoscere il risultato delle sue
scoperte.
Per
molti la montagna cela un’entrata al mondo sotterraneo situata, come volevano i
greci, in Arcadia. La via per il regno di Ade, l’Agharta, il regno del Rex
Mundi, l’inferno di Dante…
Secondo
Michel Lamy, Pech de Thauze significa Picco Cavo... vuoi vedere che l’Auguille
Creuse di Leblanc ce l’avevamo proprio sotto gli occhi? Jules Verne, nel suo Clovis
Dardentor (un esplicito richiamo ai Merovingi? O già conosceva l’avo del più
famoso Rejeton Ardent degli anni Sessanta?),
chiama il capitano del vascello Capitano Bugarach
e “sous le commandement du Capitaine Bugarach, rien à craindre. Le vent
favorable est dans son chapeau et il n'a qu'à se découvrir pour l'avoir Grand Largue!"
Cosa
ci sarà sotto il cappello del Bugarach? Forse l’inizio di un meraviglioso Viaggio
al centro della terra. La trama di questo romanzo verniano, del resto, ricorda
per molti versi una storia che noi conosciamo bene… n’est-ce pas?
VIAGGIO
AL CENTRO DELLA TERRA
Una
pergamena (o erano due?) trovata in un vecchio libro (un altare?) contiene un
messaggio cifrato scritto in caratteri runici (chissà... il Codex Bezæ?).
Il
messaggio, ritrovato e decifrato dal professor Otto Lidenbrock (il nostro
Philippe de Chèrisey) contiene le indicazioni per raggiungere il centro della
Terra... il Tesoro. Il professore e il nipote Axel (l’Axe... il Meridiano)
partono quindi da Amburgo per l’Islanda dove si trova il cratere Jökull del
vulcano Snæffels (il Bugarach), da cui parte la via al centro della terra.
Il
manoscritto (“Come sono strani i manoscritti di questo Amico...”) sarebbe opera
di Arne Saknussemm, alchimista danese del XVI secolo (“...formano un tutto per
colui che sa che i colori dell'arcobaleno uniti danno l'elemento bianco, o per
l'artista che sotto il suo pennello, fa dalle sei tinte della sua tavolozza
magica, sorgere il nero”) che tale viaggio avrebbe effettivamente compiuto
(come il grande viaggiatore dell'incognito). Nel viaggio vengono accompagnati
da una guida locale:
Hans, fedele e assolutamente impassibile (Colui che è di passaggio per fare il
bene).
La triangolazione è una tecnica che permette di calcolare le distanze sfruttando le proprietà dei triangoli. Congiungendo due punti, in questo caso Dunkerque e Barcellona, attraverso una catena di triangoli aventi a due a due un lato in comune e applicando il metodo trigonometrico di misura delle distanze in ripetizione, si ottiene, per mezzo di sole misure goniometriche, la misura cercata.
giovedì 15 novembre 2012
mercoledì 17 ottobre 2012
Milano crocevia tra fede ed eresia: I celti di Piazza della Scala
Milano è stata fondata dai Celti. Lo sapevate? Ma chi sono e da dove arrivarono i Celti che fondarono la città di Milano? Le notizie sono imprecise e insufficienti.
La cultura celtica era trasmessa solo oralmente dai Druidi in una radura sacra dove i giovani venivano istruiti anche per vent’anni e quindi poco o nulla ci resta della loro civiltà. Difficile quindi comprendere perfettamente la loro cultura.
Tutto quanto conosciamo di loro, ci è stato trasmesso dalle poche e frammentarie cronache romane, in particolare dal ‘De Bello Gallico’ di Cesare e da ‘Le Gallie’ di Strabone, quindi dai loro nemici, e da vecchi testi narrativi epici irlandesi che rimanendo esclusi per lungo tempo dalla successiva cristianizzazione romana, sono i meno manipolati.
Anche se i Celti avevano un alfabeto, l’Ogam (Irlanda), per scrivere, per esempio nomi sugli oggetti, usarono l’alfabeto Etrusco, Latino o Greco a seconda del loro stazionamento, per riprodurre il suono delle loro parole. Ecco, forse, perché le Rune, generalmente attribuite ai Celti, comprendono indistintamente le lettere di questi alfabeti.
La culla del popolo celtico è individuata dagli storici nel cuore dell’Europa, tra il sud della Germania, la Svizzera e la Francia
ed ebbero il loro massimo sviluppo tra il IV e il III secolo a. C. finendo poi via via assimilati dalla cultura romana e germanica. Anche se l’origine esatta di queste genti è ancora sconosciuta si propende per un’origine indoeuropea e più precisamente dalla regione del Mar Nero. Non si sa neppure come i Celti chiamassero la loro razza in quanto il termine Celti deriva da un vocabolo greco (Keltoi) dato loro dai greci durante i loro primi contatti con questo popolo avvenuti con la conquista di Marsiglia. Era probabilmente il nome di una specifica tribù di quel luogo, applicato in seguito a tutte le genti affini. L’altro termine, Galli, fu dato loro dai romani in quanto abitanti della Gallia. La loro società era patriarcale, e il gruppo familiare (i famosi Clan in scozzese) raggruppava antenati, discendenti e parenti acquisiti. Alla famiglia e non all’individuo spettava la proprietà della terra. Più Clan formavano una Tribù, le Tuath, a cui faceva capo un re, il Rix. La struttura sociale ci viene descritta da Giulio Cesare nel suo De bello gallico.
Di sicuro sappiamo che la loro società era divisa, dopo il re e la famiglia reale, in tre classi:
1 - i cavalieri (fra il quale veniva scelto il consiglio degli anziani)
2 - i Druidi divisi in tre caste:
- i sacerdoti, addetti al culto e ai sacrifici,
- i Bardi cantori e dicitori saggi depositari delle tradizioni orali e delle tecniche di metrica e memoria, capaci di suscitare emozioni riso, tristezza, sonnolenza e le persone dotate di particolari doni o capacità, ovvero i veggenti.
- e gli uomini d’arte- Aes dana-: fabbri, poeti, musicisti, artisti del bronzo.
Queste due caste possedevano terre
3 - e gli uomini privi di terra e non liberi.
La donna godeva degli stessi diritti degli uomini e poteva anche essere comandante degli eserciti o sacerdotessa. (Boudica contro romani 60 d..c.)
I Celti erano descritti alti, muscolosi e robusti; gli occhi erano generalmente chiari, la pelle chiara, i capelli erano di frequente biondi anche per via dell'usanza descritta da Diodoro Siculo di schiarirsi i capelli con acqua di gesso. L'altezza media fra gli uomini si aggirava sul metro e settanta, dei veri giganti per l’epoca.
Dal punto di vista caratteriale, le stesse fonti descrivono i Celti come irascibili, litigiosi, valorosi, superstiziosi, leali, grandi bevitori e amanti della musica.
Credevano nella trasmigrazione delle anime e questo ne attenuava la paura della morte in battaglia. Erano dediti a sacrifici umani e per far questo utilizzavano prigionieri, criminali, ma anche volontari o in caso di necessità addirittura innocenti.
Il sacrificio rituale prevedeva una vittima integra e perciò spesso si usava affogarle in un calderone, spesso pieno di sangue, o in un pozzo. Il Calderone di Gundestrup (Danimarca) ci mostra appunto una vittima mentre viene immersa in un recipiente a testa in giù. A volte però decine di persone e animali venivano chiuse in una specie di grosso pupazzo di vimini e bruciate vive. Grande era anche l’attenzione per le teste. Al nemico venivano mozzate e poi esibite come trofeo;
ai propri valorosi guerrieri staccate per non permettere che cadessero nelle mani nemiche visto che lì si racchiudeva l’anima del guerriero. I Celti adoravano un vasto pantheon di divinità legate prevalentemente alla natura (piccolo popolo e fate) e agli animali con una speciale venerazione per la quercia, le fonti e le radure nei boschi, luoghi sacri per eccellenza.
La quercia era l’albero più sacro ai Celti albero dedicato a Dagda (Giove per i romani) e la raccolta rituale del vischio che vi cresceva sopra (a Samain) ne è un esempio.
Il sacerdote vestito di bianco saliva su un albero e tagliava il vischio con un falcetto d'oro nel sesto giorno della luna nuova. Seguiva il sacrificio di due tori bianchi tra canti religiosi.
Per i Celti era l’albero degli alberi, poiché le sue alte fronde toccavano il cielo e le sue radici penetravano nella profondità del terreno. Un po’ come l’albero cosmico dei popoli nordici, l’ Yggdrasill (frassino).
Per la stessa ragione, ai piedi di una quercia, i druidi amministravano la giustizia, i riti religiosi e divinatori. Questi ultimi, in particolare, erano considerati ancor più sacri, se l’officiante aveva mangiato alcune ghiande prima del rito perché attraverso il frutto dell’albero, provenivano le emanazioni divine utili per interrogare il futuro e comprenderlo attraverso i segni.
La parola Druido deriva molto probabilmente dalla parola celtica drus –quercia- e wid –sapere.
adoravano Cernunno dalle corna di cervo che servirà in seguito alla cristianizzazione a dare una forma al diavolo, Epona e il suo cavallo (Uffington, Oxfordshire), Baco il cinghiale, il lupo, il serpente ecc.e una comune Grande Madre.
Nel III sec. d.C. a Chartres ne scoprirono una nell’atto di dare alla luce un figlio, ai celti che l’adoravano fu detto che era una prefigurazione della Vergine e di suo figlio, e il culto prontamente sostituito con quello di Maria. Di fatto la Grande Madre, la terra, è l'origine unica di molte divinità: da Iside, a Ishtar; da Venere, ad Athena a Gea; simboli della natura, fertilità, abbondanza, ma anche di carestie.
Da quelle immagini della Grande Madre derivano le ben note "Vergini Nere", le Madonne dal volto scuro venerate in tanti santuari.
La riconoscenza alle fonti d’acqua delle popolazioni mobili come i celti che affidavano la sopravvivenza ai benefici delle acque, viene espressa tramite la consacrazione delle fonti in cui venivano lanciate le offerte votive - a volte anche interi tesori- scoperte un po’ ovunque in Europa lungo i corsi d’acqua nei laghi e nelle sorgenti. Il viandante che si abbeverava ad una fonte faceva un omaggio alla dea versando prima di bere un po’ di acqua per terra, poggiava dei fiori raccolti nell’acqua della fonte o legava sui rami pezzi di stoffa. Il fiume o il corso d’acqua rappresenta un’espressione mobile della Madre Terra, che rende le acque sacre presso quasi tutte le antiche civiltà
Nessuno nega al giorno d’oggi le proprietà benefiche delle Terme, e forse così si spiegano anche alcuni ‘miracoli’ attribuiti alle acque dai celti. Sarebbe la combinazione particolare delle diverse proprietà minerali, vegetali e volatili che emanano certe sorgenti in certe ore del giorno e in certe fasi planetarie che ne crea i poteri rigeneratori. Come si dice: Essere al posto giusto nel momento giusto.
Con l'avvento della religione cristiana, anche gli antichi luoghi di culto delle acque, furono demonizzati, i passaggi per attraversare l'Altro Mondo, divennero "la via per accedere direttamente all'inferno" e fu imposto di abbandonare il culto. Là dove le imposizioni cristiane non attecchivano profondamente, si pensò di appropriarsi delle antiche tradizioni pagane e così, al posto di pozzi e presso fonti e sorgenti, vennero edificate cappelle o chiese dedicate a vari santi (ecco perché spesso all’interno delle chiese troviamo dei pozzi) ma sopratutto le fonti, protette dalle celtiche fate, furono dedicate alle Madonne cristiane. E alcune fonti sono ancora oggi ritenute miracolose e oggetto di pellegrinaggi cristiani.
Il calendario celtico su cui si regolava la vita sociale e lo scandire del tempo si basava su un computo complesso, regolato sia dal ciclo solare che da quello lunare. Il ciclo solare scandiva l'anno in due fasi, segnate dalla festa di Samain (1 novembre) e di Beltane (1 maggio) le quali erano ulteriormente divise in due parti uguali, segnate dalle festività minori quella di Lugnasad (1 agosto festa del raccolto) e di Imbolc (1 febbraio). In queste occasioni si accendevano grandi fuochi sacri.
Nella festa di Samain, il primo novembre, aveva inizio la parte oscura dell'anno. Questa festa era la principale dell'anno celtico perché segnava la fine dell'anno e l'inizio di quello nuovo, con un intervallo fuori dal tempo in cui gli esseri umani venivano in contatto con l'altro mondo, il Sid. In tale occasione le porte degli inferi si aprivano e gli spiriti dei morti e creature magiche tornavano a vagare nel mondo terreno. La festa durava una settimana: tre giorni prima della festa, il giorno stesso e tre giorni dopo. Si andava nei cimiteri e si portavano offerte: fiori, cibo (ceci e castagne) e bevande per festeggiare con i morti perché essendo sotto terra, si prenderanno cura dei semi durante l’inverno e li aiuteranno a germogliare in primavera. Si confezionavano perciò, piccoli dolci o pane a forma di teschi a significare che dai morti e dalla loro cura sarebbero nati i nuovi semi per la nutrizione. (pan dei morti- ossi di morto).
Il nostro uso a capodanno dei sempreverdi è connesso al fatto che, in origine, i celti li portavano in processione sui campi, come prova che la vita della natura non si era spenta . Il vischio pianta magica e curativa che cresce senza mai toccare terra essendo in realtà un parassita, veniva tagliata nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno con un falcetto d’oro dai Druidi.
Secondo i celti se due nemici s’incontravano sotto una pianta di Vischio dovevano deporre le armi e concedersi una tregua; per questo viene regalato e appeso sulle porte di casa come simbolo di pace.
E’ la festa che dall’Irlanda si è diffusa in molti paesi con il nome di Hallowen e che col cristianesimo si è fusa in pratica con la festa dei defunti.
Il 1 febbraio si celebrava invece la festa di Imbolc, festa della luce che inizia a manifestarsi con l'allungarsi delle giornate anche se siamo ancora ampiamente entro l'inverno. Letteralmente "latte di pecora" dove si festeggiava la lattazione delle pecore in vista della prossima nascita degli agnelli e, durante la celebrazione, il latte veniva versato copiosamente sulla terra a simboleggiare la fertilità. Era una festa di purificazione e rinascita, in cui si celebrava la Dea Brigit, dea della guarigione e del parto. Nel periodo della festa di Imbolc nascevano anche i bambini concepiti durante la festa di Beltane (maggio) il che rende chiaro del perché Brigit sia patrona delle nascite. Alla dea celtica Brigit i cristiani associarono s.Brigida, (1 febbraio) Questa festa di purificazione (februarius da februare significa purificare), è rimasta vivissima fino ai nostri giorni e ricordata il 2 febbraio sotto vari nomi: è la Purificazione di Maria dopo il parto, la Candelora, la Februrata romana fatta con processioni di candele per purificare la città; i Lupercalia romani e il giorno della marmotta negli USA.
Curiosità: dalla dea Brigit latinizzata in Brigantia (si legge Briganzia) deriva il vocabolo Brianza.
Il 1 maggio incominciava invece la parte luminosa dell'anno festeggiata con la festa di Beltane che significava "fuoco di Bel" dedicata a Belenus. Anche a Beltane i Druidi accendevano dei falò sulla cima dei colli e vi conducevano attraverso il bestiame del villaggio per purificarlo ed in segno di buon augurio. Anche le persone attraversavano i fuochi, allo stesso scopo. Era l’inizio del tempo di guerra.
Il primo agosto, infine, era la volta della festa di Lugnasad in cui si festeggiava la mietitura e il nuovo raccolto, celebrando la fertilità della terra e dedicato al dio Lug. Era il tempo delle assemblee e il momento in cui venivano dibattute le cause ed emessi i verdetti.
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I celti dal nord a Milano.
Milano nasce circa seicento anni prima di Cristo. Per la leggenda, poiché di storicamente certo non v’è ancora nulla, Belloveso, della tribù celto-gallica dei Biturgi, attraversò le Alpi e arrivò nell’Italia occidentale scontrandosi con i Tusci etruschi in una zona tra il po (Padus) e i Laghi,una zona popolata da antiche tribù celtiche e chiamata da tempo immemore Insubria, popolata da quella che noi conosciamo come civiltà Golasecchiana. Conquistata la zona, i Druidi chiesero agli dei dove poter fondare il loro nuovo villaggio ed essi, ascoltando le loro invocazioni,
35--mandarono come messaggero una scrofa semilanuta bianca di cinghiale che li condusse presso una radura di Biancospini, attraversando un bosco di querce e castagni per abbeverarsi ad una fonte.
36--L’insieme di tutti questi elementi sacri determinò la fondazione di Medhelan o Medhelanion che in lingua celtica significa «centro sacro».
In europa ci sono centinaia di città che si chiamavano Medhelanion. Naturalmente la leggenda si fonda sulla somiglianza del toponimo Medhelanion con il termine latino per scrofa (sus) semi-lanuta: medio lanea.
37-- L’animale, sacro alla Dea celtica Belisama, è ancora oggi rappresentato in via Mercanti, con un antichissimo bassorilievo che è stato successivamente incorporato nel Palazzo della Ragione (o Broletto da «Brolo», ovvero il luogo all'aperto dove si esercita la giustizia; o anche Palazzo della Ragione, stabilita dai giudici nelle cause civili e penali) del 1200. L'importanza del nome Medhelan deve far riflettere,in quanto medhe significava in lingua celtica medio, in mezzo e lanon santuario. In questo luogo fondarono un centro religioso, un centro sacro che si univa alle proto-città di Como e Golasecca (appunto un 'santuario di mezzo').
Nel mondo celtico si conoscono diversi luoghi sacri, divisi essenzialmente tra Nemeton e Medhelan, i luoghi sacri erano circondati da semplici capanne in legno senza una disposizione precisa, dove si svolgeva la vita quotidiana.
39-- Il Nemeton (luogo sacro dove Nem sta per cielo, quindi cielo sacro) era una solitaria radura nella foresta, delimitata da una palizzata o da un terrapieno e sorgeva lontano dai centri abitati, uno spazio che riproponeva probabilmente ritualmente la volta siderale coi suoi fenomeni.
40--Il luogo dove probabilmente venivano osservati i movimenti celesti attraverso le conformazioni delle creste delle montagne all’orizzonte o attraverso le pietre dei dolmen. Di luoghi e boschi sacri, si riempì presto tutta la zona, il pantheon celtico era piuttosto ben fornito, adorando acque, boschi e animali, e questo fa sì che in diversi luoghi di Milano siano rimaste tracce di questi luoghi sacri.
41--Per esempio si conosce S. Ambrogio ad nemus -ovvero dove c’è un Nemeton -(zona arco della Pace), identificato come luogo dove sorse il primo monastero per volere di S. Martino di Tours (passò da Milano circa 357 d.C.) e perciò connotato ai tempi come un bosco sacro.
42-- Un Medhelan invece, è un centro sacro della comunità, al quale confluivano i druidi e la popolazione in particolari momenti celebrativi. Un Medhelan è innanzi tutto un luogo di raduno in particolari occasioni: il capodanno, le feste maggiori e i consigli di guerra dove si organizzava anche un mercato per quella festa particolare. Per il resto dell’anno torna ad essere una radura. I luogi sacri erano custoditi dalla casta dei druidi, termine col quale abbiamo detto, si designano i sacerdoti.
43-- Intorno ad essi in ordine sparso i celti costruivano le loro capanne.
Ma dov’era il Nemeton principale, quello della fondazione di Milan0?
Il Dott. Gaspani e la dott.ssa Cernuti, archeoastronomi presso l’osservatorio di Brera, hanno individuato questa zona di forma ellittica, il Nemeton - che abbiamo detto probabilmente raffigura la sfera celeste e serviva quindi da calendario -, in piazza della Scala.
44-- Gli assi di queste ellisse sono apparsi ai due archeo-astronomi come posti lungo delle direttrici astronomiche di particolare interesse per il mondo religioso celtico.
45-- Questo luogo sacro era allineato astronomicamente secondo due assi: uno puntava direttamente al monte Resegone, nelle Prealpi e un altro asse viario si indirizzava verso il Monte Cervino in Val d'Aosta, però visibilissimo in pianura. Il Resegone, visibile sull'asse viario di via Manzoni in direzione di piazza Cavour, in realtà fungeva da immenso gnomone per scorgere la levata eliaca di Capella, la stella più brillante della costellazione dell'Auriga, che ri-sorgeva dopo il periodo invernale durante la festa di Imbolc, il 24 marzo, che per i Celti era la data di inizio della primavera. Il Cervino invece serviva da puntatore per il tramonto del Sole il 6 giugno, nella festa estiva di Beltane, seguendo una via che parte da via Manzoni e che si chiama via del Lauro.
L'asse da via Boito in direzione via S. Raffaele coincide con la direzione della levata eliaca di Antares nella costellazione dello Scorpione, ossia col punto dove l'astro faceva la sua comparsa nel cielo prima del sorgere del sole durante la festa di Samain (1° novembre). Antares, stella rossa, è posta alla fine della via Lattea, motivo per cui veniva considerata la porta per l'aldilà. La via dalla quale si scorgeva la stella levarsi nel cielo esiste ancora: si tratta di via San Raffaele, una traversa di piazza Duomo.
L'orientamento dell'ellisse permetteva quindi di fissare come un grande calendario ben tre feste celtiche di grande importanza: Imbolc(1 febbraio) Beltane (1 maggio) e, la più importante, il capodanno: Samain (1 novembre).
46-- Milano fu conquistata da Roma nel 222 a.C. I romani come sapete organizzavano gli insediamenti su due vie principali: il Cardo e il Decumano, generalmente orientato verso Nord. Nella Milano romana il Cardo Maximus è invece disposto verso Nord-Est, e tutto il reticolo viario si trovava - di conseguenza - ruotato di 45 gradi rispetto ai punti cardinali,
47-- ciò conferma che i romani furono costretti ad orientare la città di Milano secondo gli assi predisposti dai Celti e il loro centro, dove sorgeva il Foro, non intaccava il centro religioso celtico.
Il santuario degli Insubri appariva quindi come un nemeton di forma ellissoidale occultato alla vista da un fitto anello di alberi, probabilmente olmi e querce, ed era circondato da strade che ne facevano il punto di ritrovo centrale dell’area insubre fino a Como. Le feste si svolgevano all’esterno del santuario, nell’area a sud dell’attuale piazza del Duomo, compresa tra piazza Missori e giù fino a corso di Porta Vigentina, ricca d’acque, dove si trovavano anche altri luoghi di culto. Gli alloggiamenti, per lo più provvisori, erano invece sistemati più a nord, intorno all’area del Cordusio, verso il castello, molto più asciutta.
48--Dove oggi sorge il Duomo caro ai milanesi, un tempo sorgeva un tempio dedicato alla dea Belisama (da Bel –luce, splendore, come il suo compagno Belanu) e la sacralità di questo luogo ha continuato a perdurare nel tempo, sotto varie epoche e culti religiosi, sempre all’insegna del femminile, visto che dopo Belisama, i romani lo dedicarono a Minerva, dea della guerra con corazza e lancia e i cristiani a Santa Tecla. Oggi sul Duomo svetta la sacra immagine della Madonna, è forse un caso che sia sfolgorante di luce in quanto rivestita completamente d’oro e impugni una lancia?
Si sa che i templi dedicati a Belisama erano costruiti vicino a sorgenti d’acqua, elemento purificatorio e magico, legato al femminile e alla dea Madre, ma a Milano dov’è finita questa sorgente sacra?
49-- Una antica leggenda dice che sotto il Duomo è nascosta una scala di pietra che porta ad un lago sotterraneo così grande da poter essere attraversato in barca. Una traccia di questa fonte, sarebbe il fatto
50-- che il battistero di Santa Tecla era dedicato a San Giovanni alle Fonti. Sotto il Duomo comunque ci sono alcuni pozzi, alcuni dei quali particolarmente profondi.
51--L’unica certezza che abbiamo oggi è che Milano è sempre stata ricchissima di acqua, solcata da navigli fino a pochi anni fa sorge su un sottosuolo dove ci sono almeno 200 chilometri di canali, fiumi sotterranei, fogne e reticoli vari. Vicino alla piazza c'era comunque di certo un discreto numero di pozze d’acqua. Le vie 'Pantano' e 'Laghetto', nei pressi della via Larga ne ricordano la presenza.
All’interno del tempio di Belisama venivano custodite le “insegne auree”, con sopra l’immagine di una scrofa, trasposizione terrena della dea Belisama e del dio Belanus
Queste insegne erano bandiere tessute in lana e oro e chiamate “inamovibili” perché venivano prelevate soltanto in caso di grave pericolo, i guerrieri dovevano difenderle ad ogni costo per non farle trafugare dai nemici. Durante l’attacco romano del 222 si hanno notizie che furono nascoste in Valtellina e mai più ritrovate. Potrebbe essere uno spunto per i novelli Indiana Jones.
52--Luogo di culto della dea Epona fu molto probabilmente l’odierna zona di corso Magenta, luogo dove i romani, conquistata la città di Mediolanum, costruirono il loro Circo
53-- con le famose corse dei cavalli e delle bighe proprio perché già dedicato al culto dei cavalli.
54--Dietro il museo archeologico di via Magenta è ancora ben visibile la torre romane (campanile del Monastero maggiore oggi chiesa di San Maurizio) che faceva parte del complesso delle mura imperiali romane dietro le quali sorgeva il Circo.
55-- La zona di via Quadronno era dedicata a Morrigan dea guerriera della morte, delle acque e del serpente. Nel medioevo, proprio in via Quadronno era convinzione si riunissero le streghe il primo di maggio.
56--In zona Ticinese, a S. Vincenzo in prato, c’era un nemeton di olmi, un tempo la pianta più diffusa a Milano, nel quale si rendeva omaggio alla divinità celtica Taranis, il dio del cielo burrascoso, il signore del fuoco celeste (folgori), ma anche della fertilità apportata dalla pioggia. Negli Atti di S. Vincenzo si trova un riferimento a un’usanza, secondo la quale veniva fatta rotolare una ruota infuocata fino ad un fosso perché si spegnesse nell’acqua e quindi veniva esposta nel tempio del dio Taranis. Poiché la ruota passava attraverso i campi, si sperava che ne sarebbe seguita la diretta azione benefica del sole su di essi.
58--In piazza Missori (già di S. Giovanni in Conca), nel medioevo si celebrava un rito di matrice celtica: se [le Rogazioni triduane (processioni e litanie lungo le mura per preservare la città da minacce esterne) dell’Ascensione non avevano avuto successo e] persisteva la siccità, si metteva a bollire un calderone con ortaggi e carne, con la cui acqua si aspergevano i campi dopo una processione. Il calderone dall’inesauribile nutrimento è il tipico attributo (insieme alla mazza) del dio principale ‘Il’ Dagda.
59--Infine, narra una leggenda milanese che Calimero, vescovo di Milano, venne affogato in un pozzo vicino a un tempio di Belenos, il dio delle sorgenti consacrate, perché, acerrimo nemico dei pagani, voleva distruggerlo.
Fino al VII secolo si condannava ancora ripetutamente il culto delle pietre, oltre che delle fonti e degli alberi, eppure tutt’ora molte pietre sono ancora utilizzate per rituali di fertilità di chiara matrice celtica. Durante le cerimonie d’insediamento i capi celti salivano su di esse e giuravano di seguire le orme dei loro predecessori; sulla pietra era inciso un paio di piedi a rappresentare quelli del primo capo. Le pietre più famose di tutte sono senz’altro la Lia Fáil, megalite presso Tara in Irlanda dove venivano incoronati i Re e la Pietra di Scone, ora nel castello di Edimburgo, ambedue capaci di riconoscere il vero Re con un grido.
A porta Vicentina, nella chiesa di S. Maria al paradiso, è conservata una pietra forata di origine celtica conosciuta come ‘El Tredisin de mars’
Una leggenda racconta che il 13 marzo del 52 d.c. San Barnaba avrebbe predicato il Vangelo di Cristo erigendo una croce su una pietra forata che alcune persone stavano venerando nei pressi di porta Venezia. Si tratta di una pietra rotonda, con un buco in mezzo e una raggiera di tredici linee. Sono state avanzate varie ipotesi tra cui una delle più interessanti potrebbe essere collegata all'Astronomia: il calendario lunare prevede infatti 13 mesi e l'anno celtico contava 13 mesi (ovvero 12 mesi di trenta giorni più un mese di 3 giorni alla fine di ottobre che collegava l'anno vecchio al nuovo).
La lingua.
62--Il milanese è stato riconosciuto come lingua minoritaria dall'Unione Europea e come lingua gallica a tutti gli effetti. In Lombardia abbiamo molti esempi di come il suffisso o la radice di una parola celtica si sia conservato nel dialetto, vi faccio alcuni esempi:
Cavagna = cesta, gerla dal celtico « kavagna »
Rusca = buccia dal celtico « rusc » = buccia.
Forest = uno di fuori dal celtico « fforest » = selvatico.
Aggresgià = affrettare dal celtico «agresh» = passo veloce.
Arent = vicino dal celtico « arenta » = vicino, prossimo.
Aves = polla sorgiva d’acqua dal celtico « aves » = polla sorgiva.
Brenta = recipiente in legno a forma di cono, dal celtico « brenta » = antica misura.
E nei nomi delle città:
Arona deriva da "ar" celtico indica sopra ed "an" acqua,
Broni da “bron” fontana
Magenta da “mag” palude
Var in celtico significa acqua e diversi luoghi vicini alle acque hanno questa radice, ricordiamone alcuni: Varese, il fiume Varone e Varenna sulle acque dell'omonimo lago.
Ancora, da Casnum ovvero Quercia, abbiamo Casnedo e Casnate e i vari Cassano ricordano il nome celtico del castagno.
Incontri con la natura - prima serata-
L’uomo consuma le erbe da tempo immemorabile: dall’alba della sua esistenza. Si avvicina ad esse principalmente come fonte di cibo e scopre poi, con l’esperienza, che alcune oltre ad essere edibili possono essere benefiche (digestive, depurative, antisettiche ecc.), pericolose (soporifere, allucinogene ecc) o addirittura mortali. Ricordiamoci quindi che con le erbe, ora come allora, non si può scherzare; impariamo a conoscerle bene o affidiamoci a mani esperte.
Il loro uso si diffonde prima attraverso la tradizione orale e, in seguito - come abbiamo visto nel precedente incontro -, con gli Erbari, ovvero libri che illustrano e descrivono le piante e le loro virtù.
Per il principio che dovessero essere indipendenti nell’interno della loro cittadella claustrale e il fatto che al loro interno si traducessero e si copiassero anche i più famosi trattati medici ed erboristi, nei monasteri si sviluppò la conoscenza dell’utilizzo terapeutico delle piante e, come per tutto il resto, ci si serviva principalmente di ciò che cresceva nei dintorni delle abbazie. Fortunatamente le latitudini medie del continente europeo, consentivano una vastissima varietà di prodotti naturali.
I monaci all’arrivo nei luoghi di edificazione delle nuove abbazie, si servivano dunque con abbondanza dei prodotti dei boschi che li circondavano per approvvigionarsi delle loro piante officinali, ma, con l’avanzare dei lavori di edificazione, predisponevano sempre uno spazio apposito per la coltivazione dei Semplici all’interno delle mura della cittadella abbaziale.
Semplici è un termine antico per definire proprio le erbe medicinali. Significa medicina “simplex” ovvero medicina/rimedio ‘unico’, si usa cioè, un solo componente, un’erba.
Si chiameranno Compositi, invece, quelli ottenuti miscelando e trattando diverse sostanze. Il più famoso, usato per quasi 18 secoli e prodotto fino al 1906 a Napoli, si chiamava Triaca o Theriaca (dal greco Therion – vipera - che era anche un componente essenziale della miscela, tanto da portare sull’orlo dell’estinzione le vipere dei Colli Euganei, visto che il luogo in cui era più commercializzata era Venezia) e poteva contenere fino a 74 componenti; una sorta di Panacea per tutti i mali, derivata dal più famoso elettuario di Mitridate.
Durante il Medioevo, con l’intensificarsi dei pellegrinaggi verso i luoghi santi lungo le principali direttrici che erano Roma, Gerusalemme e Santiago de Compostela, si ebbe un grande sviluppo di luoghi riservati all’assistenza e al ricovero dei pellegrini proprio presso i monasteri disseminati lungo queste strade, molti dei quali si attrezzarono per accogliere anche stabilmente i malati cronici e terminali come gli appestati e i lebbrosi.
Abbiamo visto nello scorso incontro che San Gallo, famoso monastero benedettino Svizzero, vantava un vasto giardino di erbe mediche, ma già intorno all’800 includeva nel suo complesso camere per malati, una fornita farmacia e un alloggio riservato ai medici. Probabilmente il primo esempio di ospedale moderno nell’Europa Occidentale.
Anche qui a Morimondo c’era dunque un Hortus sanitatis- ovvero l’orto dei semplici- dove si coltivavano le piante medicinali compatibilmente con le condizioni ambientali del luogo.
La loro raccolta si effettuava, oltre che in armonia con il ciclo delle stagioni cogliendo fiori, foglie, bacche e radici nel momento del loro Periodo Balsamico (ovvero quando donano il loro migliore principio vitale), anche seguendo le ore del giorno (le piante che dovevano essere essiccate non le si raccoglieva piene di rugiada perché rischiavano di marcire o, al contrario altre ne dovevano necessariamente inglobare l’energia), il ciclo lunare e la posizione dei pianeti che potevano presentarsi favorevoli o sfavorevoli.
Pratica comune nella scelta delle piante era dettata anche dalla Teoria della Segnatura o Similitudine.
Si pensava, infatti, che le piante esibissero agli occhi di chi le osservava somiglianze esplicite con la malattia che potevano curare. Poteva essere la segnatura del colore: la calendula (gialla) era usata per l’itterizia, l’iris (blu) per le contusioni e, in generale, quelle rosse erano antiemorragiche, come il famoso Sangue di drago.
L’Eufrasia, con i bei colori dell’Iride è uno straordinario rimedio per le affezioni degli occhi contenuta ancora oggi nei moderni colliri e possiamo immaginare che fosse particolarmente usata nelle congiuntiviti e blefariti che potevano affliggere i monaci copisti. Oppure poteva essere la Segnatura della forma: i frutti della Portulaca erano simili alle reni e usati per le affezioni di quest’organo; la noce per la testa e il cervello; il sedano e il rabarbaro per le ossa e via di questo passo.
Una volta raccolte con cura, l’essiccazione delle erbe avveniva in appositi locali arieggiati e ombreggiati, in genere appese in grossi mazzi su di un apposito filo teso e, in seguito, conservate in un recipiente che non lasciasse filtrare aria o luce e poi stipate nell’armarium pigmentariorum, che permetteva la conservazione in un ambiente ottimale. Tutto ciò sotto la direzione del monachus infirmarius, un monaco con specifiche funzioni sanitarie apprese sia dai libri che dall’esperienza, che aveva l’incarico di curare i malati sia che fossero gli stessi monaci, sia i mendicanti o i pellegrini che si trovavano a passare dal monastero. Questo monaco poteva anche uscire dalle mura di clausura del monastero per curare gli ammalati che si trovavano nelle immediate vicinanze. Nelle cronache di Morimondo è ricordata la figura di un monaco che, durante una delle numerose epidemie di peste che decimarono l’Europa, recandosi a dare conforto agli ammalati del circondario spesso abbandonati dalle proprie famiglie finì con l’esserne contagiato lui stesso. La sua missione lo portò a prodigare incessantemente queste cure fino all’ultimo, quando la morte lo colse sulla strada del ritorno verso il monastero.
Infine, quando decotti, impiastri, tisane e infusioni - quindi rimedi molto elementari - si incontreranno con la cultura araba, attraverso distillatori, fornelli, alambicchi, crogioli, mortai e bilance vedrà la luce la figura dello Speziale, l’antenato dei nostri moderni farmacisti.
Il primo dei nostri incontri si occuperà delle erbe fornite dalla natura qui intorno preservata entro i confini del Parco del Ticino e dedicato in particolare alla rosa, emblema universale d’amore da sempre sacro alle divinità femminili come Ishtar, Iside, Afrodite e Venere. Il colore bianco dei suoi petali simboleggia nel mondo cristiano la purezza di Maria, nel santissimo nome della quale sono state erette tutte le abbazie cistercensi, compresa quella che ci accoglie stasera nella spettacolare cornice della Sala Capitolare.
13/10/1307 - 13/10/2012
I Templari Oltre il Mito. Storia, Leggenda e Tragedia dei monaci guerrieri.
Abbiamo voluto onorare il ricordo dell'arresto dei Templari avvenuto in Francia con una bellissima conferenza che si è tenuta a Morimondo con il patrocinio del Comune.
Ringrazio i relatori: Massimo de Rigo, Roberto Gariboldi e il Prof. Nerio de Carlo per la disponibilità e lo splendido spirito cavalleresco che li contraddistingue.
Ringrazio anche tutti quelli che sono intervenuti e che hanno comtribuito a rendere questo incontro una giornata speciale.
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