Roma, agosto 258.
Lorenzo si era per puro caso appena allontanato dal gruppo riunito nel cimitero di Prætextatus quando, richiamato dal trambusto, aveva assistito impotente dalla strada alla brutale cattura degli altri diaconi. Con sé aveva l’oggetto che Sisto II gli aveva affidato poco prima con l’incarico di portarlo lontano da Roma. La coppa del sacrificio, povera e semplice com’era, avrebbe solo rischiato di essere distrutta dall’ignoranza di quegli avidi pagani mentre Valeriano, conoscendone il potere, non avrebbe esitato a servirsene contro di loro. Non c’era tempo da perdere. Si avviò furtivo verso le vicine scuderie dove Diego, fidato amico d’infanzia, l’avrebbe portata oltre i Pirenei verso la loro città natale; al suo ritorno gli avrebbe rivelato i dettagli del nascondiglio. Ma il destino è un solitario di Dio, non una partita tra uomini: la coppa non arrivò mai a Osca e loro non si sarebbero più rivisti.
Aquae Calidae Agosto 415 d.C.
La gravidanza era oramai al termine. Ataulfo l’aveva condotta presso le terme poco tempo prima di partire per Barcino per concederle un po’ di ristoro e per tentare di alleviarle le fastidiose contrazioni che avvertiva ormai da qualche giorno. Nel tardo pomeriggio con il carro l’aveva ricondotta lentamente e pieno di attenzioni verso la cittadella che dominava come un nido d’aquila la valle sottostante. Lungo il tragitto si erano fermati per l’ultima volta al tempio che sorgeva nella grande spianata, circondato da cespugli di erbe aromatiche e da un nastro di ciottoli asciutti che indicava la presenza di un torrente. Nella casa del loro Dio comune, questa volta le aveva mostrato qualcosa di speciale.
Un arco a ferro di cavallo al di sopra del quale erano incisi innumerevoli fiori a sei petali simbolo della vita, si apriva nella facciata del sacro edificio in pietra e sormontava due monolitiche colonne in granito. Sopra di esso il muro si prolungava verso il cielo in un sinuoso muretto che accoglieva una feritoia in cui era posta una campana di bronzo. Il piccolo ingresso quadrato e spoglio, dava accesso ad un più ampio locale rotondo le cui pareti erano fino a metà altezza in pietra grigia e il restante spazio in arenaria rossa; le due tonalità di pietre erano separate da un motivo geometrico di stelle a quattro punte con un bottone centrale a loro volta inscritte in un cerchio e lo strano decoro si rincorreva lungo tutta la circonferenza. Da qui si entrava in un secondo spazio sempre circolare molto più grande, circondato da colonne con capitelli scolpiti con foglie sormontati da archi in pietra rossa sempre a forma di ferro di cavallo che davano all’insieme un aspetto vagamente moresco ma estremamente sobrio. Al di sopra di ogni arco le monofore lungo tutta la circonferenza assicuravano a questa sala la luce necessaria in ogni ora del giorno. Nel corridoio tra le colonne Ataulfo le rivelò l’accesso ad una cripta sotterranea da cui partiva un lungo cunicolo in cui, dopo aver acceso una torcia, s’incamminarono per un tempo che a Galla Placidia parve infinito. Giunsero in un enorme anfratto su cui si affacciavano alcune gallerie. Ciascun ingresso era preceduto da una pietra rettangolare riccamente scolpita sui quattro lati con motivi differente: croci dalle estremità ricciolute come se ne vedevano sulle loro monete, pavoni intenti ad abbeverarsi a una coppa, motivi geometrici, piante e fiori mirabilmente raffigurati. Ataulfo entrò sicuro in quella preceduta dal basso pilastro recante l’Alfa e l’Omega ai fianchi di una croce e tenendola per mano la condusse lungo la galleria. Durante il tragitto lo sposo le rivelò che le altre gallerie celavano impervi labirinti mortali o conducevano sul ciglio di profondi baratri oppure venivano sommersi a sorpresa dalla piena improvvisa di tumultuosi corsi d’acqua sotterranei.
Prima che l’ansia per il buio e il forte odore della terra umida cominciassero a diventare un problema per Galla Placidia, sbucarono in una grotta e alzando la debole fonte di luce sopra le loro teste Ataulfo le mostrò un enorme tesoro. Quello ricchissimo che le aveva donato il giorno delle nozze portato su due enormi vassoi da valletti vestiti di seta nella loro stanza nuziale, a casa di Ingenius a Martius Narbo, appariva come un modestissimo obolo.
Appena riuscì ad abituare gli occhi alla debole luce della torcia riconobbe anche l’enorme candelabro giudeo sottratto a Roma da Alarico. La sua sagoma inconfondibile si ergeva come una scheletrica sentinella sopra quelle innumerevoli casse piene di perle, coralli, pietre preziose e oggetti in oro e argento.
I riflessi scintillanti di enormi piatti, brocche, diademi, bracciali e collane si mescolavano ai bagliori delle gemme provenienti dai paesi più lontani. Sottili filigrane o ardite incisioni, millimetriche granulazioni, sbalzi o delicate bulinature svelavano la provenienza dei vari bottini: gli oggetti più finemente cesellati provenivano dalla Colchide. In questa terra, le raccontò Ataulfo, i fiumi erano così pieni d’oro che bastava tendere controcorrente una pelle di ariete per trovarla alla fine della giornata ricoperta di innumerevoli piccole pepite e pagliuzze.
Dunque la leggenda del vello d’oro che tanto l’aveva affascinata da bambina, pensò un po’ triste, non era altro che questo semplice sistema di estrazione dell’oro…
Quello era il tesoro della sua gente, spiegò Ataulfo, non aveva nulla a che fare con quello personale che seguiva i capi nelle loro tombe: era il futuro del suo popolo.
Egli, mostrandoglielo, compiva un atto di totale fiducia e amore.
Sopra le loro teste sferzata da un caldo vento profumato, la cittadella di Rhedae guardava verso i Pirenei sopra le cui cime erano sospese come un minaccioso presagio enormi, cupe e pesanti nubi nere.
Barcino, ottobre 415 d.C.
Ataulfo e Valia, il fido fratello minore, avevano lasciato la città senza scorta quando ancora la luce del sole non aveva cominciato a diluire il buio della notte e non vi avevano fatto ritorno che qualche giorno dopo, ricoperti di povere e sudore come i loro cavalli. Nessuno seppe mai la mèta e lo scopo di quella missione.
Quel fagotto nascosto sotto il mantello era per suo figlio Teodosio nato da pochi giorni, colui che avrebbe dominato il grande regno unificato dei popoli dei genitori. Ignorava che la vendicativa lama del potere e l’infausto destino del piccolo gli avrebbero impedito entro breve di veder realizzato il suo desiderio.
Ruscino, marzo 416 d.C.
Valia aveva stretto a lungo Galla Placidia tra le sue braccia prima di dare inizio al viaggio che l’avrebbe riconsegnata al fratello imperatore, era stata la sua regina ma soprattutto una cara sorella. Non aveva sopportato le angherie cui l’aveva sottoposta Sigerico dopo l’assassinio di Ataulfo e aveva provveduto a porvi sommariamente termine in pochi giorni. A guidare i Visigoti ora era di nuovo un fiero discendente dei Balti.
Dopo l’abbraccio le aveva consegnato quel fardello di candida pelle d’agnello chiuso con lacci di cuoio che racchiudevano l’oggetto sottratto chissà dove con il fratello nei primi giorni del loro arrivo a Barcino.
Per Valia e il suo popolo ariano, quella vecchia coppa di stagno non aveva nessun valore né materiale né religioso, per Galla Placidia invece il valore era inestimabile, incapace anche solo di toccarla con le mani tremanti.
Valia aveva dovuto nascondergliela personalmente tra le grandi casse al suo seguito, casse dove già era stato riposto con cura il tesoro avuto in dono da Ataulfo nel giorno delle nozze.
Nemausus, aprile 416 d.C.
Nel carro, tra le calde pellicce del tutto insufficienti però a scioglierle il gelo delle mani, Galla Placidia riviveva le tappe di quel viaggio a ritroso con infinita tristezza. Cupo, ora, l’azzurro del cielo che tanto somigliava agli occhi di Ataulfo, astioso il maestrale che un tempo aveva portato lontano lo scampanio del suo primo giorno di sposa e regina, crudele quel profumo di pini e di mare di cui il piccolo Teodosio sembrava sempre profumare tra i sottili capelli…
Costanzo guidava la lunga colonna di soldati che scortava la sua promessa sposa verso la città di Ravenna. Più volte i loro sguardi si erano incrociati durante il tragitto, ma in quei grandi occhi scuri Costanzo non vedeva che un buio, profondo pozzo insondabile.
L’inconfondibile profilo della Torre Magna, la più alta tra quelle del muro di cinta, avvertiva che presto avrebbero raggiunto la méta e Galla Placidia avrebbe ricevuto gli onori a lei dovuti nel tempio del Foro dedicato a Caio e Lucio Cesare nel centro della bella città. Da qui, l’indomani avrebbero abbandonato la Via Domitia per riprendere verso sud la Iulia Augusta che li avrebbe condotti senza ostacoli verso la méta.
Ravenna, 445 d.C.
Galla Placidia rimase ancora un poco a fissare negli occhi la figura di san Lorenzo nella lunetta della navata, poi uscì di nuovo alla luce del pallido sole di novembre richiudendo alle spalle il pesante battente dell’edificio. Nelle oscure profondità dell’edificio a forma di croce giaceva accuratamente nascosto la causa di quel martirio. L’ultimo preziosissimo dono del suo sposo.
Lorenzo si era per puro caso appena allontanato dal gruppo riunito nel cimitero di Prætextatus quando, richiamato dal trambusto, aveva assistito impotente dalla strada alla brutale cattura degli altri diaconi. Con sé aveva l’oggetto che Sisto II gli aveva affidato poco prima con l’incarico di portarlo lontano da Roma. La coppa del sacrificio, povera e semplice com’era, avrebbe solo rischiato di essere distrutta dall’ignoranza di quegli avidi pagani mentre Valeriano, conoscendone il potere, non avrebbe esitato a servirsene contro di loro. Non c’era tempo da perdere. Si avviò furtivo verso le vicine scuderie dove Diego, fidato amico d’infanzia, l’avrebbe portata oltre i Pirenei verso la loro città natale; al suo ritorno gli avrebbe rivelato i dettagli del nascondiglio. Ma il destino è un solitario di Dio, non una partita tra uomini: la coppa non arrivò mai a Osca e loro non si sarebbero più rivisti.
Aquae Calidae Agosto 415 d.C.
La gravidanza era oramai al termine. Ataulfo l’aveva condotta presso le terme poco tempo prima di partire per Barcino per concederle un po’ di ristoro e per tentare di alleviarle le fastidiose contrazioni che avvertiva ormai da qualche giorno. Nel tardo pomeriggio con il carro l’aveva ricondotta lentamente e pieno di attenzioni verso la cittadella che dominava come un nido d’aquila la valle sottostante. Lungo il tragitto si erano fermati per l’ultima volta al tempio che sorgeva nella grande spianata, circondato da cespugli di erbe aromatiche e da un nastro di ciottoli asciutti che indicava la presenza di un torrente. Nella casa del loro Dio comune, questa volta le aveva mostrato qualcosa di speciale.
Un arco a ferro di cavallo al di sopra del quale erano incisi innumerevoli fiori a sei petali simbolo della vita, si apriva nella facciata del sacro edificio in pietra e sormontava due monolitiche colonne in granito. Sopra di esso il muro si prolungava verso il cielo in un sinuoso muretto che accoglieva una feritoia in cui era posta una campana di bronzo. Il piccolo ingresso quadrato e spoglio, dava accesso ad un più ampio locale rotondo le cui pareti erano fino a metà altezza in pietra grigia e il restante spazio in arenaria rossa; le due tonalità di pietre erano separate da un motivo geometrico di stelle a quattro punte con un bottone centrale a loro volta inscritte in un cerchio e lo strano decoro si rincorreva lungo tutta la circonferenza. Da qui si entrava in un secondo spazio sempre circolare molto più grande, circondato da colonne con capitelli scolpiti con foglie sormontati da archi in pietra rossa sempre a forma di ferro di cavallo che davano all’insieme un aspetto vagamente moresco ma estremamente sobrio. Al di sopra di ogni arco le monofore lungo tutta la circonferenza assicuravano a questa sala la luce necessaria in ogni ora del giorno. Nel corridoio tra le colonne Ataulfo le rivelò l’accesso ad una cripta sotterranea da cui partiva un lungo cunicolo in cui, dopo aver acceso una torcia, s’incamminarono per un tempo che a Galla Placidia parve infinito. Giunsero in un enorme anfratto su cui si affacciavano alcune gallerie. Ciascun ingresso era preceduto da una pietra rettangolare riccamente scolpita sui quattro lati con motivi differente: croci dalle estremità ricciolute come se ne vedevano sulle loro monete, pavoni intenti ad abbeverarsi a una coppa, motivi geometrici, piante e fiori mirabilmente raffigurati. Ataulfo entrò sicuro in quella preceduta dal basso pilastro recante l’Alfa e l’Omega ai fianchi di una croce e tenendola per mano la condusse lungo la galleria. Durante il tragitto lo sposo le rivelò che le altre gallerie celavano impervi labirinti mortali o conducevano sul ciglio di profondi baratri oppure venivano sommersi a sorpresa dalla piena improvvisa di tumultuosi corsi d’acqua sotterranei.
Prima che l’ansia per il buio e il forte odore della terra umida cominciassero a diventare un problema per Galla Placidia, sbucarono in una grotta e alzando la debole fonte di luce sopra le loro teste Ataulfo le mostrò un enorme tesoro. Quello ricchissimo che le aveva donato il giorno delle nozze portato su due enormi vassoi da valletti vestiti di seta nella loro stanza nuziale, a casa di Ingenius a Martius Narbo, appariva come un modestissimo obolo.
Appena riuscì ad abituare gli occhi alla debole luce della torcia riconobbe anche l’enorme candelabro giudeo sottratto a Roma da Alarico. La sua sagoma inconfondibile si ergeva come una scheletrica sentinella sopra quelle innumerevoli casse piene di perle, coralli, pietre preziose e oggetti in oro e argento.
I riflessi scintillanti di enormi piatti, brocche, diademi, bracciali e collane si mescolavano ai bagliori delle gemme provenienti dai paesi più lontani. Sottili filigrane o ardite incisioni, millimetriche granulazioni, sbalzi o delicate bulinature svelavano la provenienza dei vari bottini: gli oggetti più finemente cesellati provenivano dalla Colchide. In questa terra, le raccontò Ataulfo, i fiumi erano così pieni d’oro che bastava tendere controcorrente una pelle di ariete per trovarla alla fine della giornata ricoperta di innumerevoli piccole pepite e pagliuzze.
Dunque la leggenda del vello d’oro che tanto l’aveva affascinata da bambina, pensò un po’ triste, non era altro che questo semplice sistema di estrazione dell’oro…
Quello era il tesoro della sua gente, spiegò Ataulfo, non aveva nulla a che fare con quello personale che seguiva i capi nelle loro tombe: era il futuro del suo popolo.
Egli, mostrandoglielo, compiva un atto di totale fiducia e amore.
Sopra le loro teste sferzata da un caldo vento profumato, la cittadella di Rhedae guardava verso i Pirenei sopra le cui cime erano sospese come un minaccioso presagio enormi, cupe e pesanti nubi nere.
Barcino, ottobre 415 d.C.
Ataulfo e Valia, il fido fratello minore, avevano lasciato la città senza scorta quando ancora la luce del sole non aveva cominciato a diluire il buio della notte e non vi avevano fatto ritorno che qualche giorno dopo, ricoperti di povere e sudore come i loro cavalli. Nessuno seppe mai la mèta e lo scopo di quella missione.
Quel fagotto nascosto sotto il mantello era per suo figlio Teodosio nato da pochi giorni, colui che avrebbe dominato il grande regno unificato dei popoli dei genitori. Ignorava che la vendicativa lama del potere e l’infausto destino del piccolo gli avrebbero impedito entro breve di veder realizzato il suo desiderio.
Ruscino, marzo 416 d.C.
Valia aveva stretto a lungo Galla Placidia tra le sue braccia prima di dare inizio al viaggio che l’avrebbe riconsegnata al fratello imperatore, era stata la sua regina ma soprattutto una cara sorella. Non aveva sopportato le angherie cui l’aveva sottoposta Sigerico dopo l’assassinio di Ataulfo e aveva provveduto a porvi sommariamente termine in pochi giorni. A guidare i Visigoti ora era di nuovo un fiero discendente dei Balti.
Dopo l’abbraccio le aveva consegnato quel fardello di candida pelle d’agnello chiuso con lacci di cuoio che racchiudevano l’oggetto sottratto chissà dove con il fratello nei primi giorni del loro arrivo a Barcino.
Per Valia e il suo popolo ariano, quella vecchia coppa di stagno non aveva nessun valore né materiale né religioso, per Galla Placidia invece il valore era inestimabile, incapace anche solo di toccarla con le mani tremanti.
Valia aveva dovuto nascondergliela personalmente tra le grandi casse al suo seguito, casse dove già era stato riposto con cura il tesoro avuto in dono da Ataulfo nel giorno delle nozze.
Nemausus, aprile 416 d.C.
Nel carro, tra le calde pellicce del tutto insufficienti però a scioglierle il gelo delle mani, Galla Placidia riviveva le tappe di quel viaggio a ritroso con infinita tristezza. Cupo, ora, l’azzurro del cielo che tanto somigliava agli occhi di Ataulfo, astioso il maestrale che un tempo aveva portato lontano lo scampanio del suo primo giorno di sposa e regina, crudele quel profumo di pini e di mare di cui il piccolo Teodosio sembrava sempre profumare tra i sottili capelli…
Costanzo guidava la lunga colonna di soldati che scortava la sua promessa sposa verso la città di Ravenna. Più volte i loro sguardi si erano incrociati durante il tragitto, ma in quei grandi occhi scuri Costanzo non vedeva che un buio, profondo pozzo insondabile.
L’inconfondibile profilo della Torre Magna, la più alta tra quelle del muro di cinta, avvertiva che presto avrebbero raggiunto la méta e Galla Placidia avrebbe ricevuto gli onori a lei dovuti nel tempio del Foro dedicato a Caio e Lucio Cesare nel centro della bella città. Da qui, l’indomani avrebbero abbandonato la Via Domitia per riprendere verso sud la Iulia Augusta che li avrebbe condotti senza ostacoli verso la méta.
Ravenna, 445 d.C.
Galla Placidia rimase ancora un poco a fissare negli occhi la figura di san Lorenzo nella lunetta della navata, poi uscì di nuovo alla luce del pallido sole di novembre richiudendo alle spalle il pesante battente dell’edificio. Nelle oscure profondità dell’edificio a forma di croce giaceva accuratamente nascosto la causa di quel martirio. L’ultimo preziosissimo dono del suo sposo.
Nessun commento:
Posta un commento